Biblioteca, cinema, Letteratura italiana, Lettura

Letteratura, cinema, storie del secondo dopoguerra.

Nato a Sora il 7 Luglio dell’anno 1901, Vittorio De Sica è considerato uno dei padri del Neorealismo ed uno dei maggiori registi e interpreti della cd. “Commedia all’italiana“.

Alcune proposte di lettura – Volumi disponibili in Biblioteca

Due tra le pellicole divenute più iconiche nel panorama cinematografico del secolo scorso, a regia Vittorio De Sica, sono senz’altro Ladri di biciclette e La Ciociara.

Entrambe sono ispirate a libri di scrittori italiani: Luigi Bartolini, artista marchigiano dalla poliedrica natura; e Alberto Moravia, indiscusso protagonista della letteratura italiana e mondiale.

Locandina film Ladri di biciclette

Il primo dei due film (uscito nel 1948) racconta di un disoccupato, Antonio Ricci, che trova finalmente lavoro come “attacchino” comunale. Per svolgere questo lavoro deve possedere una bicicletta ma la sua è impegnata al Monte di Pietà: la moglie Maria è costretta dunque a dare in pegno le lenzuola per riscattarla. Proprio il primo giorno di lavoro, però, la bicicletta viene rubata. Antonio rincorre il ladro, ma inutilmente; si reca dalla polizia, ma le forze dell’ordine per un furto di così poco conto non potranno aiutarlo. Amareggiato torna a casa e capisce che l’unica possibilità è di cercare lui stesso la bicicletta: l’indomani all’alba – insieme al figlio Bruno – il protagonista si mette alla ricerca, ma dopo varie vicissitudini ed incontri e dopo aver perso ogni speranza, entrambi si arrendono all’impietoso destino che li ha privati dell’unico mezzo di sostentamento: annichiliti dalla stanchezza, dolorosamente attendono il tram per tornare a casa…è allora che Antonio nota una bicicletta incustodita e – preso dalla disperazione – tenta maldestramente di rubarla…ma viene subito fermato e aggredito dai passanti. Ancora una volta il destino, beffardo e accanito, è contro Antonio: solo il pianto disperato del figlio muove a pietà i presenti e gli evita il carcere; Bruno stringe la mano al padre ed insieme i due si allontanano tra la folla, mentre su Roma scende la sera.

Il piccolo Bruno che tende la mano al padre

Un reale affresco della Roma, e del suo tessuto sociale, del secondo dopoguerra; un forte senso di riscatto e rinascita, che si frantuma contro il muro della misera condizione umana: questo ci racconta De Sica, e dovremmo ricordare più spesso da dove veniamo per capire in quale direzione andare.

Nel 1960 esce invece nelle sale il film La Ciociara, il cui soggetto è un adattamento dall’omonimo romanzo di Alberto Moravia.

Alcuni degli scritti di Moravia presenti in Biblioteca

Il secondo conflitto mondiale, che non risparmia Roma dai bombardamenti, induce Cesira (interpretata da una giovane Sofia Loren che proprio per questo personaggio riceverà il Premio Oscar come migliore attrice protagonista), giovane vedova proprietaria d’un modesto negozio d’alimentari, a cercare rifugio tra i monti della Ciociaria dov’è nata. La sua preoccupazione è che alla figlioletta tredicenne, Rosetta, siano risparmiati il più possibile i patimenti, le angosce e le sofferenze che la guerra infligge ai civili. Giunte non senza difficoltà a destinazione, Cesira fa la conoscenza di Michele, un giovane intellettuale antifascista, fuggiasco anch’egli, che si innamora di lei. Cinque soldati tedeschi che hanno bisogno di una guida per attraversare il territorio montano catturano l’uomo e poi lo fucilano. Quando arrivano gli Alleati, Cesira – ritenendo che la guerra sia finita anche per lei e per la figlia Rosetta e che il grande incubo sia terminato – decide di tornarsene a Roma insieme con la figlioletta: a piedi le due donne s’incamminano ma un gruppo di soldati le aggredisce e violenta. Il dolore che Cesira sente è soprattutto per l’innocente figliola, che ha tentato disperatamente e con tutte le forze di salvaguardare: Rosetta si rinchiude in un agghiacciante silenzio, la sua serenità di fanciulla, il suo confidente amore lasciano il posto ad uno scuro e freddo rancore; ancor peggio, Rosetta ormai violata e completamente disorientata si lascia sedurre dal camionista Florindo (che incontra le due donne lungo la strada) per un paio di calze di nylon. Soltanto un nuovo dolore, la notizia della morte di Michele, scioglierà l’incomprensione tra le due donne.

Locandina

La protagonista del film, oltre alla Loren, è sicuramente l’Italia; l’Italia del dopoguerra, dilaniata sia nel paesaggio che nelle persone; la Loren impersona perfettamente la metafora di quest’Italia, forte e risoluta, che la guerra ha violata ed umiliato.

Biblioteca, Lettura, Scaffale tematico, Storia antica

AB URBE CONDITA: ORIGO GENTIS ROMANAE.

Il 21 Aprile dell’anno 753 a.C. veniva fondata la città di Roma.

La leggenda narra dell’approdo di Enea, dopo lungo peregrinare, sulle coste laziali e della fondazione sempre ad opera dell’eroe greco della città di Lavinio. Ascanio, figlio di Enea (o secondo alcuni suo fratello) fonda invece la città di Albalonga, su cui i successivi eredi regnano per circa quattrocento anni. Da ultimo, il re Numitore viene cacciato dal fratello Amulio, il quale peraltro – per non rischiare di perdere il trono usurpato a causa della discendenza del germano – obbliga Rea Silvia (figlia del sovrano destituito) a diventare Vestale; tuttavia il dio Marte si invaghisce della giovane e dall’unione nascono i gemelli Romolo e Remo.

I due bambini vengono abbandonati in una cesta e, trascinati dalla corrente del fiume Tevere, giungono alla palude del Velabro (la valle compresa tra Palatino e Campidoglio, parte del Foro Boario). Ivi una lupa – attratta dai loro vagiti – li trova e allatta. Il luogo del rinvenimento dei due bambini potrebbe essere il Lupercale, una grotta alle pendici del Palatino che fu poi trasformata in un santuario a memoria di questo storico avvenimento.

Cresciuti e scoperte le loro vere origini, i ragazzi restituiscono al nonno Numitore Albalonga e ritornano poi sulle rive del Tevere nei luoghi della gioventù per ivi fondare una nuova città. Dissidi e discussioni prendono il sopravvento: “Poiché erano gemelli e non vi era il diritto dell’età che potesse stabilire una distinzione, affinché gli dèi protettori di quei luoghi attraverso segni augurali scegliessero chi doveva dare il nome alla nuova città, e una volta fondata tenerne il governo, occuparono Romolo il monte Palatino e Remo il monte Aventino come sede per l’osservazione degli auspici. Si dice che a Remo per primo si sia presentato l’augurio, sei avvoltoi; e quando questo già era stato annunciato essendo apparso a Romolo un numero doppio, l’uno e l’altro furono acclamati come re dai loro seguaci: gli uni reclamavano il regno in base alle priorità dell’augurio, gli altri in base al numero degli uccelli. Scoppiata quindi una rissa, nel calore dell’ira si volsero al sangue, e colpito in mezzo alla folla Remo cadde. Versione più diffusa è che in segno di scherno verso il fratello Remo abbia varcato d’un salto le recenti mura, e sia stato ucciso da Romolo irato, il quale avrebbe aggiunto queste parole di monito: “Questa sorte avrà chiunque oltrepasserà le mie mura”. Così Romolo rimase solo padrone del potere, e la nuova città prese il nome del fondatore. (cfr. Ab Urbe condita, Tito Livio, libro Primo, 6 e 7).

Le leggende, in quanto tali, sono avvolte nel mistero ed artefatte proprio in virtù del loro fine, che è quello di instillare insieme rispetto e timore, fiducia e riverenza, ma sul Palatino è stato effettivamente rinvenuto un villaggio di capanne risalenti all’ VIII sec. a.C., periodo che coincide cronologicamente con la fondazione della città secondo la leggenda. 

Oltre il mito, la storia come spiega la nascita di Roma? Perché l’embrione della Città Eterna è nato proprio lì e proprio in quel tempo?

Il motivo fondamentale sta nella collocazione topografica rispetto al/del fiume. Il Tevere, infatti, se da un lato era via di collegamento per i traffici dal mare alla montagna e viceversa, dall’altro fungeva da ostacolo per i commerci tra l’Etruria e la Campania. Non essendo le capacità tecniche di costruire ponti ancora avanzate, il fiume andava superato per mezzo di “traghetti” o attraverso un passaggio da una riva all’altra a piedi, attraverso cioè il guado: all’uopo non poteva esserci soluzione migliore che quella rappresentata dall’Isola Tiberina. Roma è dunque sorta in via generica in funzione del fiume Tevere ed in via specifica in funzione dell’isola Tiberina e del suo guado.

La scelta cadde inoltre sulla riva sinistra poiché naturalmente protetta dal monte Campidoglio e dal monte Palatino, dai quali si potevano avvistare i pericoli in arrivo e sui quali si poteva cercare rifugio in caso di attacco.

La presenza del fiume Tevere è stata dunque, tra le caratteristiche naturali, sicuramente la più determinante per la nascita di Roma, tanto che si è sostenuto che il nome “Roma” derivasse da un nome arcaico del Tevere (ovvero “Rumon” o “Rumen”) la cui radice deriva dal verbo “ruo”, ovvero “scorrere”: dunque Roma avrebbe significato di “Città sul Fiume”.

Per approfondire l’origine di Roma, la successiva storia e la cultura latina in generale, venite a trovarci in Biblioteca: troverete testimonianze antiche (“di prima mano”) e saggi scritti in epoca più recente, volumi contenenti opere d’arte ed architettura e libri relativi alla società dei Romani in generale.

Se è vero che non c’è futuro senza conoscenza del passato, parafrasando Montesquieu possiamo affermare che non c’è ragione di preferire i libri moderni fino a che non abbiamo letto tutti i libri antichi.

Biblioteca

Le sinagoghe nella topografia antica di Roma

Come ogni anno anche lo scorso 27 gennaio la nostra biblioteca, in occasione della Giornata della memoria, ha aderito, su invito della Provincia di Ascoli Piceno, alla commemorazione delle vittime dell’Olocausto mediante l’allestimento di uno scaffale tematico corredato di pannelli illustrativi a disposizione del pubblico dal 27 gennaio al 10 febbraio. Inoltre è stata predisposta una bibliografia di documenti sia per bambini e ragazzi che per adulti di testi sull’argomento disponibile online sul Catalogo del Sistema Interprovinciale Piceno.

E’ in questo contesto che pubblichiamo di seguito, dopo Il più antico cimitero della comunità ebraica di Roma il presentesecondo, contributo della collega Silvia Allegra Dayan, archeologa, archivista e bibliotecaria, addetta alla catalogazione, in cui localizza, tra l’altro, tre proseuchai: una nel Campo Marzio in Via dei Banchi Vecchi, la seconda sull’Esquilino nei dintorni di S. Maria Maggiore, e un’altra in Trastevere nei pressi di Porta Settimiana.

 

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SOTTO IL SEGNO DEL CEDRO

 … prenderete i frutti dell’albero
più bello, dei rami di palma e
dell’albero più frondoso, dei salici
del torrente e vi rallegrerete
dinnanzi al Signore Dio vostro

(Lev. 23,40)

Si vuole mettere sotto la protezione del cedro il viaggio che percorreremo alla ricerca delle sinagoghe perdute lungo le strade dell’antica Roma. Questo “frutto dell’albero più bello” che inondava di profumo inebriante le vallate del Libano, è sempre stato un simbolo di Sukkoth (Festa delle Capanne) per gli ebrei di tutti i tempi e di tutti i luoghi, che per celebrare la festa devono agitare in ogni direzione un mazzetto che tengono nella mano destra, composto da un ramo di palma (lulàv), rami con dense foglie e salici di torrente (aravà) e tre rami di mirto (hadas), mentre recano nella mano sinistra un frutto di cedro (etrog). Questo frutto meraviglioso del colore del sole e a forma di cuore ci accompagnerà fino alla fine del nostro percorso, dove ci aiuterà a creare una splendida suggestione…

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Catacomba di Venosa, arcosolio dipinto (sono raffigurati da sinistra l’anfora dell’olio, l’etrog (il cedro), la Menorah, lo shofar (il corno) e il lulav (la palma)

La presenza degli ebrei a Roma è accertata dalle fonti storiche fin dal II secolo a. C. ma la documentazione epigrafica disponibile fa precisi riferimenti alla seconda metà del I secolo a. C., infatti molti studiosi riferiscono la sinagoga degli Augustenses ad Augusto, quella degli Agrippenses ad Agrippa, quella degli Herodienses ad Erode, e quella dei Volumnenses a Volumnio procuratore di Siria. Lo studio dei bolli laterizi indica i primi tempi dell’Impero giù fino a Diocleziano. Secondo Giovan Battista De Rossi la presenza della comunità ebraica a Roma è accertata all’epoca di Claudio, come testimonierebbe l’iscrizione dell’arconte KLAYDIOC, mentre quella di REGINA e di MARKIANA sarebbero degli inizi del II secolo d. C. Secondo il Frey, e non solo, la catacomba di Monteverde cominciò ad essere usata alla fine dell’età repubblicana, era in uso nel I secolo d.C., nel II e III secolo d.C. fu intensamente sfruttata, e dal IV secolo d. C. cominciò ad essere abbandonata. Filone d’Alessandria venne a Roma ai tempi di Caligola dove trovò molti ebrei che erano stati prigionieri di guerra, poi affrancati, che abitavano in Trastevere e che ai tempi di Augusto costruirono dei luoghi di preghiera, detti proseuchà, dove si riunivano per essere istruiti e per raccogliere denaro da inviare a Gerusalemme.

Gli ebrei si distribuirono in tutti i vari quartieri della città. A ovest li troviamo nel Campo Marzio. A est sono presenti nella Suburra, in località de aggere presso la Porta Esquilina da dove iniziava la via Labicana, al bosco delle Camene presso la Porta Capena e l’inizio della via Ardeatina. A nord presso la Porta Collina da dove iniziava la via Flaminia, e nei pressi delle vie Salaria e Nomentana. A sud erano in Trastevere, e attraverso la via Portuense arrivarono ad abitare Porto e a Ostia.

A Roma la comunità ebraica era divisa in sinagoghe dai nomi molto diversi tra loro che derivavano da circostanze molto diverse tra loro:

a) gli ebrei arrivati a Roma che volevano mettersi sotto il velo protettivo di un personaggio influente, intitolarono le loro sinagoghe ad un imperatore o ad un procuratore che li aveva favoriti, o che avrebbe potuto proteggerli, e queste sono gli Augustenses, gli Agrippenses, gli Herodienses, e i Volumnenses;

b) gli ebrei, come tutti gli altri abitanti di Roma, nell’arco dei secoli si distribuirono nelle varie regioni prendendo il nome dai toponimi dei luoghi da loro abitati, e questi erano i Campenses, i Calcarenses, i Suburenses, i Sicinenses;

c) gli ebrei della diaspora si riunirono sotto il nome delle città di loro provenienza dell’Asia Minore e dell’Africa del nord, e questi erano gli Heleaenses, i Tripolitenses, gli ebrei di Arca del Libano;

d) il gruppo di ebrei che proveniva dalla Giudea si volle distinguere da tutti altri gruppi, dichiarando che erano loro gli Hebraei per eccellenza;

e) gli ebrei nati a Roma volevano far sapere che erano in città da lungo tempo ed erano i veri ebrei romani, chiamandosi Vernaculi.

Una prima notizia dell’esistenza di una sinagoga la troviamo in un’iscrizione pagana che ricorda che il defunto Corfidio era stato un pomarius e che la sua bottega sorgeva de aggere a proseuchà, cioè presso l’Agger dove c’era una proseuchà, cioè un edificio di culto ebraico, perché il luogo di culto dove si riunivano gli ebrei veniva chiamato proseuchà, mentre “sinagoga” stava ad indicare le persone riunite insieme. Da questa iscrizione datata I-II secolo d. C., sappiamo dunque che nei pressi dell’Agger delle Mura Serviane sorgeva una proseuchà detta de aggere.

L. 1. Praeter, p. 44. Erant autem proseucba propriè Judeorum, in qvibus poma vendebant¡ unde Pomarii cognomen. Inscriptio vetus: P. CORFIDlO. SIGNINO. POMARIO. A. PROSEVCHA.

(Exercitatio philologica de proseuchis Judaeorum, ad illustrandum Actor. XVI. Comma 13. & 16. quam … ord. Philos. … indulgente preside … Balthasare Stolbergio … examini submittet M. Wilh. Ernestus Tentzelius, Greuss. Thur. … XXXVI. Jul. MDCXXCII. In auditorio majori)

Conosciamo i nomi di tredici sinagoghe: la sinagoga di Augusto, di Agrippa, di Erode, di Volumnio, del Campo Marzio, del Calcarario, della Suburra, del Sicinino, di Elea, di Tripolis, di Arca del Libano, gli ebrei di Giudea (Hebraei), gli ebrei romani (Vernaculi). Nel XII secolo a Roma si contavano più di 200 ebrei maschi. Nel 1438 erano ancora numerosi in Trastevere, ma molti avevano attraversato il Ponte S. Maria ed erano venuti a stabilirsi a Ripa, attorno al Teatro di Marcello, e in Rione S. Angelo dov’era Piazza Giudea. Dal censimento di Roma del 1526 sappiamo che vi erano 2000 ebrei, di cui 1200 in Rione S. Angelo, oltre 350 alla Regola, quasi 200 a Ripa, e altri sparsi nei diversi rioni. Nel 1668 la statistica degli ebrei di Roma registrva 850 famiglie con 4500 persone. Il censimento del 1809 documentava la presenza di 3078 ebrei.

SINAGOGHE DI INCERTA LOCALIZZAZIONE

Sinagoga degli Augustenses

Scheda tecnica:

Tipologia: proseuchà (edificio di culto).

Nome: sinagoga degli Augustenses.

Localizzazione: probabile, in Trastevere.

Datazione: inizio o prima metà del I secolo d. C.

Questa sinagoga è ricordata in sei iscrizioni.

1) MARCUS . QUINTUS . ALEXUS . GRAMMATEUS . MELLARCHON . TON . AUGOYSTESION (Frey 284: Via Appia; Ms. De Rossi “Ad S. Mariam trans Tiberim, coemeteriis suburbanis effossos“, il Marangoni e il Muratori la consideravano pagana, il Migliore la considera giudaica). Marcus Quintus Alexus grammateus e mellarconte.

2) ANNIC . GEROUSIARCHES . AYGOUCTHCION (Frey 301: Via Portuense, Via Portuense, scavi Muller 1904-1906, Musei Vaticani). Annis gerusiarca.

3) ZOTIKOC . ARXON . AYGOUCTHCION (Frey 338: Via Portuense, scavi Paribeni 1919, Museo Nazionale Romano. Fronte di sarcofago). Zotikos arconte.

4) KYNTIANOC . GEROYCIARXHC . CYNAGOGHC . AYGOUCTHCION (Frey 368: Via Portuense, ritrovata nel 1748, poi al Museo Borgiano di Velletri, Museo Nazionale di Napoli). Quintianos gerusiarca.

5) FLABIA . ANTONINA GYNH . DATIBOY . (ARXON) . ZABIOU. CYNAGOGHC . TON . AYGOUCTHCION (Frey 416: Via Portuense, ritrovata nel 1748, poi al Museo Borgiano di Velletri, Museo Nazionale di Napoli).

6) [IOUL]  . MARKELLA . MATER . CYNA(GOGHC) . AYGOYCTECION (Frey 496: Via Anicia, scavi 1900, Palazzo dei Conservatori). Dativo zabiu.

Sicuramente anche l’epigrafe di Marcus Quintus Alexus, vista a S. Maria in Trastevere, proveniva dalla catacomba di Monteverde. Secondo Filone (Ad Gaium 23) Augusto fu prodigo con gli Ebrei confermando i privilegi accordati da Cesare, e la famiglia imperiale fece delle offerte votive al Tempio di Gerusalemme, e un gruppo di ebrei arrivati a Roma, come ringraziamento  intitolarono la loro sinagoga a questo imperatore.

Sinagoga degli Agrippenses

Scheda tecnica:

Tipologia: proseuchà (edificio di culto).

Nome: sinagoga degli Agrippenses.

Localizzazione: probabile, in Trastevere.

Datazione: inizio o prima metà del I secolo d. C.

Questa sinagoga è ricordata in tre iscrizioni.

1) KAILIC . PROCTATHC . AGRIPPHCION (Frey 365: Via Portuense, scavi Paribeni 1919, Museo Nazionale Romano). Kailis prostates.

2) [YOU]DAC . GEROY[CIARXEC] . CY[NAGOG]HC . AGRIPPHCION (Frey 425: Via Portuense, scavi Muller 1904-1906, Musei Vaticani). Iuda gerusiarca.

3) ZOCIMOC . DIA . BIOY . CYNAGOGHC . AGRIPPHCION (Frey 503: provenienza incerta; Menestrier la descrive “In Sancti Salvatoris Transtiberini parochia” decorata con un ramo di palma e un candelabro a sette braccia). De Rossi da Ughelli la descrive “In Sancti Salvatoris de Curtis” decorata da due candelabri, uno a cinque braccia e uno a sette braccia). Zosimo dia biu.

Gli studiosi credono che questa sinagoga fosse intitolata a Marco Vipsanio Agrippa molto amato dagli Ebrei.

Sinagoga degli Herodienses

Scheda tecnica:

Tipologia: proseuchà (edificio di culto).

Nome: sinagoga degli Herodienses.

Localizzazione: probabile, in Trastevere.

Datazione: prima metà del I secolo d. C.

Questa sinagoga è ricordata in una sola iscrizione.

1) … [CYNA]GOGHC [H]PODION … (Frey 173: Via Appia).

Mentre lo Schurer aveva pensato ad una sinagoga di Ebrei provenienti da Rodi, altri studiosi ritengono che la sinagoga fosse dedicata ad Erode Agrippa I, amico di Agrippa che venne molte volte a Roma, come testimonia Flavio Giuseppe (Ant XVI, 1, 2; 2, 2; 5, 3; 9, 1; Bell I, 21, 11; 23, 3-5).

Persio nella V Satira (260-266) riferisce che

D’Erode ecco le feste. Di viole
Inghirlandate, ed in bell’ordin messe
Su finestra unta, dalle pingui gole

Pingue dan nebbia le lucerne spesse:
Coda di tonno in rosso catin nuota;

Spuman bianchi boccali; e tu sommesse
Preci borbotti, e pallida la gota
Il sabbato ti fa dei circoncisi.

(Traduzione di Vincenzo Monti, 1803).

Dunque alla morte di Erode gli ebrei di Roma misero lucerne di viole inghirlandate alle finestre. Erode Agrippa I muore nel 44 d. C.

Sinagoga degli Heleaenses

Scheda tecnica:

Tipologia: proseuchà (edificio di culto).

Nome: sinagoga degli Heleaenses.

Localizzazione: probabile, in Trastevere.

Datazione: incerta.

Questa sinagoga è ricordata in due iscrizioni.

1) CYNA[GOG]HC . HLEAC (Frey 281: via Appia. De Rossi che conservava il calco del testo completo, ebbe da Bormann anche il caldo di un frammento conservato nel Collegio dei Barnabiti della Quercia a Firenze).

2) PANXARIOC . PATER . CYNAGOGHC . ELAIAC (Frey 509: di provenienza incerta, ai Musei Vaticano dal 1904). Pancharios, pater synagogae di anni 110.

Numerose città avevano il nome di Elea, come Elea in Epiro, Elea di Fenicia, Elea di Bitinia, Elea di Etiopia, Elea di Misia, e va ricordata anche la città di Velia nel sud Italia. Il Frey predilige la città di Elea di Misia. La sinagoga probabilmente era ubicata in Trastevere, dove vivevano molti orientali.

Sinagoga dei Tripolitenses

Scheda tecnica:

Tipologia: proseuchà (edificio di culto).

Nome: sinagoga degli Tripolitenses.

Localizzazione: probabile, in Trastevere.

Datazione: incerta.

Questa sinagoga è ricordata in due iscrizioni.

1) PROKLOC . ARXON . CYNAGOGHC . TRIPOLEITON (Frey 390: Via Portuense, catacomba di Monteverde, scavi Paribeni 1919, Museo Nazionale Romano). Proklos arconte.

2) SYMMACHOS . [G]ERO[U]C[I]ARXHC . TRIPOLITHC (Frey 408: Via Portuense, catacomba di Monteverde, scavi Muller 1904-1906, Musei Vaticani). Symmachos gerusiarca.

Gli studiosi credono che questa sinagoga raggruppasse gli ebrei provenienti dalla Tripolis dell’Africa proconsolare, cioè le città di Sabratha, di Oea e di Leptis Magna. Va ricordato che c’era anche la città di Tripolis in Fenicia. La sinagoga probabilmente era ubicata in Trastevere, dove vivevano molti orientali.

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Cedro del Libano, pianta secolare. Montefalco (Perugia).

Sinagoga di Arca del Libano

Scheda tecnica:

Tipologia: proseuchà (edificio di culto).

Nome: sinagoga degli ebrei di Arca del Libano.

Localizzazione: probabile, in Trastevere.

Datazione: incerta.

Questa sinagoga è ricordata in una iscrizione.

1) ALEXAN[DRA] . TYGATHR . TOY . ALEXA[NDROU] . APO . THC . CYNAG[OGHC] . ARX[OU . LI]BANOU (Frey 501: provenienza incerta. Cod. Vat. Lat. 9143, f. 170 b; Cod. Vat. Lat. 9074, p. 940, n. 7). Alexandros della sinagoga di Arca del Libano.

Alessandro Severo era nato nella città di Arca del Libano, nota anche con i nomi di Irkata, Arka, Arqoth, Arké, Arxai, Arca Cesarea, urbs Arcena, Colonia Caesarea Libani.

Il Libano è conosciuto anche come “la terra dei cedri”.

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Frey (Cod. Vat. Lat. 9143, f. 170 b; Cod. Vat. Lat. 9074, p. 940, n. 7).

La sinagoga probabilmente era ubicata in Trastevere, dove vivevano molti orientali.

Sinagoga degli Hebraei

Scheda tecnica:

Tipologia: proseuchà (edificio di culto).

Nome: sinagoga degli Hebraei di Giudea.

Localizzazione: probabile, in Trastevere.

Datazione: incerta.

Questa sinagoga è ricordata in quattro iscrizioni.

1) [ES]IDORA . TYGATHR . ARXONTOC . EBREON (Frey 291: Via Portuense, catacomba di Monteverde, scavi Muller 1904-1906, Musei Vaticani). Arconte.

2) GELACIC . EXARCHON . TON . EBREON (Frey 317: Via Portuense, catacomba di Monteverde, scavi Muller 1904-1906, Musei Vaticani). Gelasis exarchon.

3) CALO . TYGATHR … GADIA . PATROC . CYNAGOGHC . AIBREON (Frey 510: di provenienza incerta. De Rossi annota “exscripsi in aedibus Rondanini, nunc in mus. Kircheriano“, Museo Nazionale Romano). Gadia (Toskara) pater synagogae.

4) … TYGATEREC . DYO . PATROC . TON . EBREON . GADIA . TOSKARA (Frey 535: Porto, Musei Vaticani). Gadia Toskara pater synagogae.

Mentre altri autori proponevano di vedere una sinagoga di Samaritani, il Frey ipotizzava che la sinagoga degli Hebraei raggruppasse gli immigrati dalla Giudea, che ritenevano di essere gli Ebrei per eccellenza. La parola “ebreo” ricorre in dieci iscrizioni (Frey 291, 317, 354, 370, 379, 502, 505, 510, 535, 718). Il Frey attribuisce alla sinagoga solamente le quattro iscrizioni suddette, dalle quali conosciamo un arconte degli Ebrei, Gelasis exarconte degli Ebrei, e Gadia Toskara, che ricorre in due iscrizioni, che era pater synagogae degli Ebrei. Solo in un caso viene specificato “sinagoga” mentre negli altri tre casi si ricorda solo che erano ebrei. A queste iscrizioni va aggiunta anche l’epigrafe di Kailis Kyintos due volte arconte, posta sulla fronte di sarcofago ritrovato a piazza Venezia:

KAILIC . KYEINTOC . FILOPATOR . B. ARXON … EBRAIOC (Frey 505: provenienza incerta. Notizie Scavi 1892, Gatti “nelle escavazioni per i lavori di fondazione dei piloni del monumento di Vittorio Emanuele. Fronte di sarcofago baccellato, rotta in tre pezzi, lunga m. 1,02, alta m 0,49. Nel mezzo grande cartello securiclato“. Museo Nazionale Romano).

Proprio in piazza Venezia avevamo collocato la bottega di Bartolomeo Basso, dunque in questa bottega oltre alla fronte di sarcofago di Beturia Paula, c’era anche la fronte di sarcofago di Kailis Kyintos. I ritrovamenti negli scavi di Piazza Venezia dovranno essere riesaminati perché lì sorgeva la bottega di Mastro Bartolomeo, che fra le seicento carrettate di marmi doveva averne recuperate alcune dalla catacomba di Monteverde.

Le altre iscrizioni con la parole “ebreo” sono le seguenti:

MAKEDONIC . O . AIBREOC . KECAREYC . THC . PALECTINEC (Frey 370: Via Portuense, catacomba di Monteverde, scavi Muller 1904-1906, Musei Vaticani). Makedonis, figlio di Alexandros, ebreo di Cesarea di Palestina. Citazione dai Proverbi (10, 7) secondo la versione di Aquila (Frey 370, e Frey 86), altrove secondo la versione dei Settanta (Frey 201).

IOYLIANOC . EBREOC (Frey 354: Via Portuense, catacomba di Monteverde, scavi Muller 1904-1906, Musei Vaticani). Iulianos ebreo.

MONIMOC . O . KAI . EY . CABBATIC . EBRAIOC (Frey 379: Via Portuense, catacomba di Monteverde, scavi Muller 1904-1906, Musei Vaticani). Monimos, detto Sabbbatis, ebreo.

ALYPIC . TIBEREYC . KAI . YIOI . AYTOOY . IOYCTOC . KAI . ALYPIC . EBREOI (Frey 502: provenienza incerta. Ms. De Rossi “Exscripsi in aedibus Rondaninis, nunc in mus. Kircheriano“). Alypios di Tiberiade, e i suoi figli Iustos e Alypios, ebrei.

[CYNA]GOGH . EBR[…] (Frey 718: Corinto, scavi 1903, architrave in marmo posta al di sotto della porta della sinagoga, datata I a. C. – II d. C.). San Paolo pregò spesso nella sinagoga di Corinto (Act, 18).

Dunque gli ebrei che provenivano da diverse città della Giudea, anche da Cesarea e da Tiberiade, a Roma si erano riuniti nella sinagoga detta “degli Ebrei”. L’ipotesi del Frey che questa sinagoga raggruppasse gli ebrei per eccellenza è da ritenersi definitiva. La sinagoga forse era ubicata in Trastevere.

Sinagoga dei Vernaculi

Scheda tecnica:

Tipologia: proseuchà (edificio di culto).

Nome: sinagoga dei Vernaculi (ebrei romani).

Localizzazione: probabile, in Trastevere.

Datazione: incerta.

Questa sinagoga è ricordata in quattro iscrizioni.

1) DONATOC . GRAMMATEYC . CYNGOGH . BERNAKLORO (Frey 318: Via Portuense, catacomba di Monteverde, scavi Muller 1904-1906, Musei Vaticani). Donatos, grammateus.

2) POLYMNIC . ARXICYNGOGOC . [CY]NAGOGHC . BERNA[KL]ON (Frey 383: Via Portuense, catacomba di Monteverde, scavi Muller 1904-1906, Musei Vaticani). Polymnis, archisinagogo.

3) CABEINOC . DIA . BIOY . BERNAKLHCION (Frey 398: Via Portuense, catacomba di Monteverde, scavi Muller 1904-1906, Musei Vaticani). Sabeinos, dia biou.

4) [D]OMNOC . P[AT]ER . CYNAGOG[HC] . [B]ERNAKLON . TRIC . ARXON . X[AI] DIC . [F]RONT[ICTE]C (Frey 494: Via Portuense, lavori 1892, Ospizio Umberto I in S. Cosimato, fronte di sarcofago). Domnos, pater synagogae, tre volte arconte, phrontistes.

Secondo il Frey il termine Vernaculi non indica necessariamente gli ebrei figli di schiavi nati a casa del padrone, ma gli ebrei nati a Roma che si volevano distinguere dagli altri gruppi. L’ipotesi del Frey è da ritenersi definitiva. La sinagoga forse era ubicata in Trastevere.

SINAGOGHE DEL CAMPO MARZIO

SILVIA3
Rione Campo Marzio

Sinagoga dei Volumnenses o Bolumnenses

Scheda tecnica:

Tipologia: proseuchà (edificio di culto).

Nome: sinagoga dei Volumnenses.

Localizzazione: certa ma generica, in Campo Marzio.

Datazione: prima metà del I secolo d. C.

Questa sinagoga è ricordata in quattro iscrizioni.

1) BETURIA . PAULA . MATER . SYNAGOGARUM . CAMPI . ET . BOLUMNI (Frey 523: Piazza Venezia, 1592, bottega di Bartolomeo Basso).

2) ILAROC . ARXON . APO . CYNAGOGHC . BOLYMNHCION (Frey 343: Via Portuense, catacomba di Monteverde, scavi Paribeni 1919, Museo Nazionale Romano).

3) CIKOYLOC . CABEINOC . MELLARXON . BOLOYMNHCON (Frey 402: Via Portuense, catacomba di Monteverde, scavi Muller 1904-1906, Musei vaticani).

4) FLABIOC . CABEINOC . ZABIOY . CYNAGOGHC . TON . BOLYMNHCION (Frey 417: catacomba di Monteverde, scavi Paribeni 1919, Museo Nazionale Romano).

Volumnio, procuratore di Siria, era amico di Erode come ricorda Flavio Giuseppe (Ant XVI, 9, 1; 10, 8; Bell I, 26, 2-3).

La sinagoga insieme a quella dei Campenses va ubicata in Campo Marzio. Torneremo sull’argomento.

Sinagoga dei Campenses

Scheda tecnica:

Tipologia: proseuchà (edificio di culto).

Nome: sinagoga dei Campenses.

Localizzazione: certa ma generica, in Campo Marzio.

Datazione: metà o seconda metà del I secolo d. C.

Questa sinagoga è ricordata in quattro iscrizioni.

1) BETURIA . PAULA . MATER . SYNAGOGARUM . CAMPI . ET . BOLUMNI (Frey 523).

2) … KLODIOU . ADELPHOU . KOUINTOU . KLAUDIOU . CYNECIOU . PATROC . CYNAGOGHC . KAMPHCION . ROMHC (Frey 319: Via Portuense, catacomba di Monteverde. De Rossi che cita Marini “trovata nelle catacombe, fu donata dal canonico Severini al Chiostro di San Paolo“).

3) …]IC . GRAMATE[UC] . [CYNA]GOGHC . KA[MPHCION] (Frey 433: Via Portuense, catacomba di Monteverde, scavi Muller 1904-1906, Musei vaticani. La sinagoga potrebbe essere anche quella dei Calcarenses. Il lapicida è quello che fa la H senza il trattino superiore destro, ed è diverso da quello della 319 e della 88).

4) ANNIANOC . ARXON . NEPIOC . YIOC . YOULIANOY . PATHR . CYNAGOGHC . KAMPEH[C]ION (Frey 88: Via Appia, catacomba di Vigna Randanini).

La sinagoga insieme a quella dei Bolumnenses va ubicata in Campo Marzio. Torneremo sull’argomento.

Sinagoga dei Calcarenses

Scheda tecnica:

Tipologia: proseuchà (edificio di culto).

Nome: sinagoga dei Calcarenses.

Localizzazione: esatta, in Campo Marzio.

Datazione: I secolo d. C.

Questa sinagoga è ricordata in sei iscrizioni.

1) APER . ARXON . KALKAP[E]CION (Frey 304: Via Portuense, catacomba di Monteverde, scavi Muller 1904-1906, Musei vaticani). Aper arconte.

2) […] GAYDENTIC KALK[A]PECON (Frey 316: Via Portuense, catacomba di Monteverde, scavi Muller 1904-1906, Musei vaticani). Gaudentis.

3) POMPONIC . O . DIC . APXON . CYNAGOGHC . KALKAPECIC (Frey 384: Via Portuense, catacomba di Monteverde, scavi Paribeni 1919, Museo Nazionale Romano). Pomponis arconte.

4) …]IC . GRAMATE[UC] . [CYNA]GOGHC . KA[MPHCION] (Frey 433: Via Portuense, catacomba di Monteverde, scavi Muller 1904-1906, Musei vaticani. La sinagoga potrebbe essere anche quella dei Calcarenses. Il lapicida è quello che fa la H senza il trattino superiore destro). Un grammateus.

5) IOYLIANOC . IEREYC . ARXON . KALKARHCION . YIOC . IOYLIANOY . ARXICYNAGOGOY (Frey 504: Via Portuense, catacomba di Monteverde. L’iscrizione occupava la parte centrale di un sarcofago utilizzato come fontana, e visto dal Lupi prima del 1734 “Romae, in cavaedio palatii DD. de Naris, ad sanctae Clarae“. Il Garrucci vede l’epigrafe ancora nel luogo indicato dal Lupi. La via Nari, oggi di S. Chiara, era in Rione S. Eustachio fra il palazzo di questa famiglia e il Palazzo Sinibaldi. Il vicolo de’ Nari era fra via dei Caprettari e via S. Chiara). Iuliano arconte, figlio di Iuliano, archisinagogo.

6) KATTIA . AMMIAC . ZYGATHR . MHNOFILOY . PATHR . CYNAGOGHC . TON . KAPKARHCION (Frey 537: Via Portuense, catacomba di Monteverde, Musei vaticani. Lastra rotta in più pezzi e riunita nel 1924, De Rossi vide solo il frammento destro). Menophilo pater synagogae.

Il Frey vedeva nel nome di questa sinagoga il riferimento preciso ad un toponimo, e non il riferimento alla professione svolta dai suoi appartenenti, e ricorda che nella regione a sud del Campo Marzio, presso il Circus Flaminius, nel secolo XI esisteva una zona chiamata Calcaria. La sinagoga va ubicata in Campo Marzio. Torneremo sull’argomento.

SINAGOGHE DELL’AREA ORIENTALE

Sinagoga dei Suburenses

Scheda tecnica:

Tipologia: proseuchà (edificio di culto).

Nome: sinagoga dei Suburenses.

Localizzazione: certa ma generica, in Suburra.

Datazione: probabile, I secolo d. C.

Questa sinagoga è ricordata in cinque iscrizioni, più forse una sesta di dubbia interpretazione.

1) DIOPHATOC . GRAMMATEYC . CIBOYRHCON (Frey 18: Via Nomentana, catacomba di Villa Torlonia, iscrizione dipinta). Diophatos grammateus,

2) EYLOGE[I]OU . [TOU] . ARX[ONTOC] . [CYNAGOGHC] . CIBOYRH[CON] (Frey 22: Via Nomentana, catacomba di Villa Torlonia, iscrizione dipinta, molto danneggiata). Eulogio arconte.

3) KLAYDIOC . [ARXON . CIBOYR]HCION (Frey 37: Via Nomentana, catacomba di Villa Torlonia, iscrizione su marmo).

4) [GRAMMAT]EOC . CIBOYRHCION (Frey 67: Via Nomentana, catacomba di Villa Torlonia, iscrizione dipinta, molto danneggiata). Grammateus.

5) MARONIC . O . KE[..] . KE […] . […]HTOC . EGGON . ALEXANDRO[U . TO]U . X[AI] . MA[TH]IOY . ARXON . C[…]YRHCION (Frey 140: Via Appia, catacomba di Vigna Randanini, iscrizione su marmo). Alessandro, detto Mathios, arconte.

6) NEIKODHMOC . O . ARXON . CIBOYRHCION (Frey 380: Via Portuense, catacomba di Monteverde, iscrizione su marmo, Museo Borgiano di Velletri, ora al Museo Nazionale di Napoli. Vista da Amaduzzi, citato in Bellori con riferimento ad una lettera del 4 febbraio 1764). Nicodemo, detto Ablabio, arconte.

La sinagoga sorgeva nella Suburra. Torneremo sull’argomento.

SILVIA4
1777 Rione Monti.

Sinagoga dei Sicinenses

Scheda tecnica:

Tipologia: proseuchà (edificio di culto).

Nome: sinagoga dei Sicinenses.

Localizzazione: esatta, sull’Esquilino in località Sicinino.

Datazione: I secolo d. C.

Questa sinagoga è ricordata in una sola iscrizione.

1) A[D]IOYTOP . GRAMM[ATEUC] . SEKHNON (Frey 7: Via Nomentana, catacomba di Villa Torlonia, iscrizione dipinta). Adiutor grammateus.

Gli studiosi, a cominciare dal Frey, attribuiscono il nome ad una comunità di Ebrei provenienti da Skina, oggi Medinet es-Sultan, porto dell’Africa del nord, indicato nella Tabula Peutingeriana come “Scina, locus Judaeorum Augusti“, nell’Itinerario Antonino come “Iscina“, e in Tolemeo come “ICKINA“.

La sinagoga sorgeva sull’Esquilino. Torneremo sull’argomento.

SINAGOGHE DEL CAMPO MARZIO

SILVIA5
1777 Campo Marzio.

 

Sinagoga dei Campenses e sinagoga dei Bolumnenses nel Campo Marzio

Torniamo sull’argomento della sinagoghe dei Campenses e dei Bolumnenses. La proselita Beturia incontra Rabbi Gamaliel e gli altri saggi negli anni 90-95 d. C., e quando muore sedici anni dopo, aveva il titolo onorifico di mater synagogae Campi et Bolumni, ovvero mater delle sinagoghe dei Campenses e dei Bolumnenses, due gruppi distinti e con origini diverse. I Bolumnenses o Volumnenses erano gli ebrei riuniti nella sinagoga intitolata al procuratore Volumnio. I Campenses erano gli ebrei riuniti nella sinagoga che prendeva il nome dal luogo in cui era sorta, cioè in Campo, e il Campo per eccellenza era il Campo Marzio. E’ molto probabile che la proselita Beturia fece numerose elargizioni al suo nuovo gruppo di appartenenza, mettendo a disposizione probabilmente anche la propria casa dove fare una nuova sinagoga, che sarà detta dei Campenses perché sorgeva nel Campio Marzio, e non era lontana dalla già esistente sinagoga dei Volumnenses. Vediamo così che il gruppo dei Volumnenses e quello dei Campenses scegliendo Beturia come mater delle loro due sinagoghe, confermano la vicinanza fra i due edifici di culto.

Il Campo Marzio comprendeva tutta la pianura all’esterno delle Mura Serviane che aveva come asse principale la Via Flaminia che univa la Porta Fontinalis e la Porta Flaminia. Quest’asse in una sua parte veniva chiamato anche Via Lata (Via del Corso). Le maggior parte delle strade moderne ricalcano il percorso primitivo di quelle antiche e i quartieri conservano l’aspetto topografico antico. I confini del campo Marzio erano:

a) in alto la Porta Flaminia (Piazza del Popolo);

b) a mano sinistra il Tevere da Ponte Regina Margherita a Ponte Sisto;

c) in basso;

d) a mano destra Via del Corso da Piazza Venezia a Piazza del Popolo.

Questa area molto vasta si divideva nel:

1) Campo Marzio settentrionale, compreso tra la Via Flaminia, la Porta Flaminia, il Tevere e in basso la Via Recta. In quest’area sorgevano diversi monumenti alcuni dedicati ad Augusto come il Solarium Augusti, il Mausoleum Augusti e l’Ara pacis, e altri dedicati ad Agrippa come lo Stagnum Agrippae, la Porticus Vipsania e il Campus Agrippae.

2) Campo Marzio centrale, compreso tra Piazza Navona e Via del Corso nel senso est-ovest, tra Via dei Coronari-Via delle Coppelle a nord, e Via delle Botteghe Oscure a sud. L’Ara di Marte era il polo di attrazione del Campo Marzio centrale da collocare tra Piazza Venezia – Via del Corso – piazza del Collegio Romano, forse al centro di Via del Plebiscito al di sotto di palazzo Doria.

3) Campo Marzio meridionale: il settore meridionale compreso tra il Teatro di Marcello e Ponte Vittorio Emanuele, che costeggia il Tevere faceva parte del Circus Flaminius. Il Circo Flaminio occupava la zona compresa tra il Teatro di Marcello, Piazza Cairoli, Via del Portico di Ottavia e il Tevere.

– località Campo Marzio.

Nel medio evo era quasi deserta e cominciò ad essere nuovamente abitata dal secolo XIV dai profughi dell’Illiria e della Schiavonia rifugiati a Roma. Il 21 aprile 1453 la chiesetta di S. Maria de Posterula viene regalata alla compagnia degli Schiavoni, dai quali prese il nome anche la contrada circostante detta Schiavonia. Pochi anni dopo in questa zona sorsero le case di architetti e muratori lombardi, riuniti nella società di S. Gregorio dei Muratori.

– chiesa di S. Nicola de tofo, tufo, tufis.

La chiesa di S. Nicola de tofo viene ricordata fin dal X secolo. Il 30 agosto 1471 la chiesa di S. Nicola de tofo viene concessa alla nazione lombarda. Nel 1521 è chimata S. Ambrosio de Milano. Ricostruita nel 1612-1612 è oggi S. Carlo al Corso.

– chiesa di San Biagio a Campo Marzio.

E’ un’antica chiesetta situata in Vicolo de Materazzari, fra Via dei Prefetti e Piazza Borghese. Detta anche SS. Biagio et Cecilia della compagnia dei Manuali. La chiesa è oggi dedicata alla Madonna del Divino Amore. Negli Avvisi di Roma del 7 agosto 1604 leggiamo che in questa chiesa fu trovata un’epigrafe sulla quale si leggeva “In hoc loco solebat orare S. Caecilia“.

– chiesa di S. Maria in campo Martis, o campi Martis.

Antichissimo monastero detto Monasterium sanctae Mariae in campo Martis, o campi Martis. Annesse al monastero vi erano due piccole chiese una dedicata a S. Maria e l’altra a S. Gregorio Nazianzeno, il corpo del quale venne traslato a Roma nella seconda metà secolo VIII. Questa chiesa di S. Gregorio coincide con l’oratorio sancti Gregorii quod ponitur in campo Martis.

Incrociando questi dati possiamo affermare che queste due sinagoghe erano ubicate nel Campo Marzio, forse nell’area settentrionale, a non molta distanza l’una dall’altra, e che la sinagoga dei Volumnenses intitolata a Volumnio esisteva fin dagli anni 30 d. C. circa, ed era più antica di quella dei Campenses, sorta nella seconda metà del I secolo d. C. circa.

SILVIA6
1777 Rione Parione (compare la Chiesa di S. Stefano in Piscinula).

Sinagoga dei Calcarenses in Via dei Banchi Vecchi

Torniamo sull’argomento della sinagoga dei Calcarenses. Questa sinagoga viene documentata sia dalle fonti antiche che da quelle medievali.

– frammenti della Forma Urbis Severiana.

Nel frammento perduto n. 682 della Forma Urbis Severiana si conservava parte di un edificio davanti al quale c’era una fila di pilastri quadrati, con sotto le ultime lettere …ES. In basso a sinistra a fianco di un’altra costruzione c’era l’inizio di un’altra costruzione con l’inizio della scritta SYN… Lo Huelsen ha avvicinato questo frammento 682 al frammento 672 per affinità di disegno, e nel frammento 672 si vedono due templi in un’area recintata, preceduti da un’ara posta davanti alla scalinata, accompagnati dalle scritte con orientamento diverso “AEDES…” e “INTEL…“. Queste scritte sono state variamente interpretate come “IN TELLURE AEDES TELLURIS ET PALLADIS” e “INTELLURE“, e il frammento è stato anche attribuito alla zona prospiciente il Colosseo. Lo Huelsen proponeva di leggere TERENTUM e dunque la sinagoga ricordata nell’altro frammento sarebbe stata vicino al Terentum. Il Terentum viene menzionato con i ludi saeculares ed era ubicato in extremo Martio campo nei pressi del Tevere, e circondava la Ditis Patris et Proserpinae ara scoperta nel 1888 fra la Chiesa Nuova e la Piazza Sforza Cesarini, e probabilmente si estendeva verso il Tevere. Festo descrive così Terentum locus in Campo Martio dicitur quod eo loco ara Ditis Patris terra occultaretur. L’altare di Dis e Proserpina di età imperiale è stato scoperto nel 1886-1887 sotto Palazzo Cesarini, cinque metri al di sotto del livello stradale di Corso Vittorio Emanuele. In un muro medievale non lontano, c’erano lastre marmoree recanti le iscrizioni delle celebrazioni dei ludi saeculares di Augusto dl 17 a. C., e di Severo del 204 d. C. Lo Huelsen propose di accostare i due frammenti 672 e 682  integrando “INTER DUOS …ES AEDES SYN“. E’ stato proposto di identificare il frammento 672 con il Tarentum, il principale santuario della zona del Campo Marzio occidentale, un’area prossima al Tevere dove si trovava l’ara dedicata a Dis e Proserpina, per cui il frammento 672 potrebbe essere integrato “AEDES Ditis et Proserpinae INTErento“, e il complesso occupava certamente un’area presso la riva del fiume, quasi allo sbocco del Pons Neronianus. Il frammento 682 della Forma Urbis Severiana conservava sicuramente parte del nome di una sinagoga e se come proponeva lo Huelsen, questo frammento fosse ricongiungibile con il frammento 672, in cui sarebbe rappresentato il Terentum, avremmo un preciso riscontro fra le fonti letterarie e i frammenti della pianta marmorea severiana. La ricollocazione del frammento 672, ove sono raffigurati i due tempietti di Dis e di Proserpina, nell’area di piazza Sforza Cesarini, e il ricongingimento del frammento 682 in cui si conservano le lettere “SYN” verrebbero confermati dalle fonti e dalla toponomastica di età medievale. Però non possiamo escludere che il frammento 682 possa essere interpretato separatamente dal frammento 672, per cui la sinagoga non sarebbe pertinente all’area del Terentum. Il Terentum localizzato precedentemente in Piazza Sforza Cesarini, è stato poi collocato presso il Lungotevere dei Fiorentini, fra l’omonimo Largo e la Piazza dell’Oro.

Terentum.

Il Tarentum o Terentum, luogo di culto antichissimo, che sorgeva “in extremo Campo Martio” è stato localizzato presso Ponte Vittorio Emanuele, mentre precedentemente veniva identificato con l’edificio quadrangolare scoperto in Piazza Sforza Cesarini, che ora viene identificato con un ustrinum, forse quello di Adriano. L’edificio scoperto nel 1888 fra la Chiesa Nuova e la Piazza Sforza Cesarini era l’Ara di Dis e Proserpina. Il luogo veniva così descritto “Terentum locus in Campo Martio dicitur quod eo loco ara Ditis patris terra occultaretur“, e “Terentum in Campo Martio locum Verrius … Ditis patris aram“.

Palatium Cromatii.

Esistevano nell’antichità esempi leggendari di edifici astronomico – astrologici come il palazzo di vetro del prefetto Cromazio sotto l’impero di Diocleziano, a cui si lega una storia, che mette in evidenza il rapporto fra cristianesimo e astrologia, perché è lo stesso San Sebastiano che indurrà Cromazio a distruggere l’edificio dove era contenuta tutta la disciplina delle stelle.

SILVIA7
Beit Alpha, Sinagoga, mosaico con raffigurato lo Zodiaco (VI secolo)

Nella redazione più antica della guida per pellegrini Mirabilia Urbis Romae leggiamo “Ad Sanctum Stephanum in Piscina Palatium Cromatii praefecti, et templum quod dicebatur Olovitreum, totum factum ex cristallo et auro per artem mathematicam, ubi erat astronomia cum omnibus signis Caeli, quod dextruxit sanctus Sebastianus cum Tiburtio filio Cromatii“.

Nell’Ordo di Benedetto Canonico viene specificato “per porticum et per praelibatum pontem, intrans sub arcu triumphali Theodosii, Valentiniani et Gratiani imperatorum et vadit iuxta palatium Chromatii, ubi Iudaeum faciunt laudem, prosiliens per Parrionem inter circum Alexandri et theatrum Pompeii“.

Nel Liber Politicus dello stesso Benedetto Canonico viene indicato il percorso in senso contrario “Et sic sinistra manu descendit ad maiorem viam Arenulae, transiens per theatrum Antonini et per palatium Chromatii, ubi fuit olovitreum, et sub arcu Gratiani, Theodosii et Valentiniani imperatorum…“.

Il Gregorovius narra che “Beniamino di Tudela visitò Roma al tempo di Papa Alessandro III, incontrando gente molto influente fra i suoi correligionari, persino alla corte papale, e di aver incontrato rabbini di non comune saggezza quali Daniele, Jehiel, Joab, Nathan, Menahem e altri ebrei in Trastevere. Il rabbino Jehiel trans Tiberim habitans era introdotto alla corte papale, il rabbino Nathan aveva scritto nel 1101 un vocabolario talmudico e suo padre aveva fu autore di componimenti liturgici. … La città risuonava del fragore della guerra civile sotto Anacleto II… In occasione delle agitate processioni che egli indisse da pontefice i nostri occhi possono vedere la sinagoga ebraica eretta presso il favoloso palazzo di Cromazio…L’Ordo composto da Benedetto Canonico nell’anno 1143, nel cui codice troviamo pure i Mirabilia, descrive così il percorso della processione pontificia attraverso Roma… e sale al Vaticano e alla basilica dell’apostolo Pietro. Terminata la messa, egli è incoronato, percorre in processione questa “sacra via”: attraversa il Porticus e il suddetto Ponte (di Adriano), egli passa sotto l’arco di Trionfo degli imperatori Teodosio, Valentiniano e Graziano, e costeggia il palazzo di Cromazio, dove gli ebrei intonano laudi, quindi attraverso il Parione, tra il circo di Alessandro e il teatro di Pompeo, scende per il Porticus di Agrippina, risale per la Pinea, accanto alla Palatina, supera S. Marco… sancta Via dove le processioni pontificie si snodavano… E dove non manca neppure il palazzo del prefetto Cromazio nella regione Parione, dove si erano stabiliti gli ebrei. Il libro descrive questo edificio romano che a quel tempo esisteva ancora, se pure in rovina, ed era situato vicino a S. Stefano in Piscina; lo chiama templum Olovitreum, che significa tutto composto di mosaico, tutto di vetro, cristallo e oro, fatto con arte magica e adorno delle immagini degli astri celesti. L’autore sapeva che questo meraviglioso palazzo era stato distrutto da Sebastiano e Tiburzio, fratello del prefetto Cromazio“.

Il Palatium Cromatii ricorre anche nella Passio S. Sebastiani, e nella vita di Papa Gaio.

Passio Sancti Sebastiani (di Arnobio il Giovane, monaco del V secolo, e poi nella Legenda Aurea di Jacopo da Varagine).

… Secondo la leggenda Sebastiano visse sotto l’impero di Domiziano. Nato a Milano da padre di Narbona e da madre milanese, fu istruito nei principi della fede cristiana. Si recò poi a Roma dove entrò a contatto con la cerchia militare alla diretta dipendenza degli imperatori. Divenuto alto ufficiale dell’esercito imperiale, fece presto carriera e fu il comandante della prestigiosa prima Coorte della prima legione  di stanza a Roma per la difesa dell’Imperatore. … Marco e Marcelliano, figli di Tranquillino, furono arrestati su ordine del prefetto Cromazio. … I fratelli erano ormai sul punto di cedere quando Sebastiano fece loro visita persuadendoli a perseverare nella loro fede e a superare eroicamente la morte. … Sebastiano portò alla conversione un nutrito numero di persone: Zoe col marito Nicostrato e il cognato Castorio, il prefetto romano Cromazio e suo figlio Tiburzio. … Marco, Marcelliano, Tranquillino, e lo stesso prefetto di Roma di nome Cromazio con tutta la sua famiglia con più di mille persone, tutti i servi furono guadagnati alla fede da Sebastiano e dal santo Pontefice accolti nella Chiesa. … Quando Diocleziano scoprì che Sebastiano era cristiano esclamò: “Io ti ho sempre tenuto fra i maggiorenti del mio palazzo e tu hai operato nell’ombra contro di me”. Sebastiano fu quindi condannato a morte. Fu legato ad un palo in un sito del colle Palatino, denudato, e trafitto da così tante frecce in ogni parte del corpo da sembrare un istrice. … Sorpreso alla vista del suo soldato ancora vivo, Diocleziano diede ordine che Sebastiano fosse flagellato a morte, castigo che fu eseguito nel 304 nell’ippodromo del Palatino, per poi gettarne il corpo nella Cloaca Maxima.

– Vita di Papa Gaio.

Cajo ringraziava Iddio delle molte conversioni che per opera di Sebastiano succedevano, e intanto procurava di servirsi dei mezzi intellettuali ed anche materiali dei novelli convertiti per fare del bene agli altri. Mandò egli un giorno a chiamare Cromazio che era uomo ricchissimo e già divenuto fervente cristiano. A Cromazio,  egli disse, “Dio ti aprì una strada per impiegar bene le tue ricchezze, tu vedi le angustie e le necessità in cui sono posti i tuoi fratelli cristiani, loro è tolto il mezzo di poter vivere senza perder l’anima o la vita. Tu che sei ricco e potente puoi liberarli da questo pericolo. Considera tutti i cristiani come figliuoli tuoi siccome sono tutti figliuoli di Dio. Esso te li raccomanda per mezzo mio affinchè tu li mantenga colle tue ricchezze”. Nulla più stava a cuore a Cromazio che poter santamente impiegare le sue sostanze, e per mezzo dei suoi amici fece raccogliere nascostamente quanti cristiani potè nel suo palazzo. Colà egli, come alla propria famiglia, dava loro per amor di Dio ogni giorno il necessario mantenimento. Ma tante erano le spie poste ad ogni luogo per andar in traccia di cristiani, che Cromazio giudicò necessario uscir di Roma per sottrarsi agli occhi degli esploratori. Adducendo per motivi la sua età e le sue infermità dimandò ed ottenne dall’imperatore di potersi andare a vivere in una sua grande proprietà che possedeva nella Campania sulle rive del mare Mediterraneo. Partendo da Roma disse al papa e a Sebastiano, che tutti i cristiani i quali avessero voluto fuggire dalla rabbia dei persecutori avrebbero potuto liberamente andare con lui, dove sarebbero ben accolti, mantenuti e provveduti di quanto occorreva per la vita. … Cromazio rinunciò alla propria carica di prefetto e si ritirò con altri cristiani convertiti in una sua villa in Campania. Il figlio invece rimase a Roma dove patì il martirio, poi, uno a uno, anche gli altri cristiani morirono per aver abbracciato la nuova religione: Marco e Marcelliano finirono trafitti da lance, il loro padre Tranquillino lapidato, Zoe sospesa per i capelli a un albero e arrostita. Molti partirono alla volta della Campania, parecchi altri rimasero in città. Ma trattandosi di mandar qualcheduno ad assistere quei novelli cristiani e continuare ad istruirli nella fede, nacque una gara fra Policarpo e Sebastiano. Ambedue amavano di rimanere in Roma, poi Pancrazio partì… Intanto venne la domenica e Cajo invitò i cristiani a radunarsi nella casa di Cromazio per ascoltare la messa… Tiburzio era figliuolo del prefetto Cromazio. Egli aveva intrapreso lo studio delle leggi e per ingegno e per ricchezze vedovasi aperta la più luminosa carriera nel mondo. Ma instruito nella fede da Sebastiano ricevette il Battesimo… Quando Cromazio partì a con quei fedeli che lo vollero seguire, il Pontefice coi due fratelli Marco e Marcelliano, e col padre loro Tranquillino, rimasero in Roma. Con essi erano molti altri guidati da Sebastiano. … Ma saputosi il sito dove solevano radunarsi i cristiani, Cajo non si giudicò più sicuro nella casa di Cromazio da lui cangiata in Chiesa, e andò ad abitare in casa di un certo Castulo, capo cameriere della casa imperiale. Egli abitava nel medesimo palazzo, ma nelle camere più elevate dell’edifizio. Il santo Pontefice si pensò di essere colà sicuro perchè niuno sarebbesi immaginato, che i cristiani avessero voluto radunarsi nella reggia medesima dell’imperatore loro acerbissimo nemico. Cajo prese una camera di quelle abitate da Castulo e la mutò in una chiesa. … Fra quelli che numerosi furono ricevuti da s. Cajo nella fede, mentre viveva nelle catacombe, fu il glorioso Pancrazio con Dionigi suo zio. Pancrazio era nato in Sinnada città della Frigia nell’Asia Minore. I suoi genitori appartenevano alle più illustri e ricche famiglie di quel tempo, e morirono quando Pancrazio toccava appena l’età di anni 10. Il padre morendo lo affidò a suo fratello Dionigi, che poco dopo la morte dei genitori giudicò bene di trasferirsi col nipote a Roma. Suo scopo era di poter meglio amministrare i beni che Pancrazio possedeva presso in quella città, ed anche procurare al medesimo maggior comodità d’istruirsi nelle scienze. Andò a fissare dimora in un suo podere che racchiudeva un aggregato di case detto Cuminiana sopra il monte Celio, e intorno al monte Celio vi erano molte caverne, e catacombe, alcune fatte dalla natura, altre a bella posta scavate. In uno di questi antri stava nascosto Papa Cajo. La moltitudine dei miracoli che questo santo Pontefice operava, e le luminose virtù che praticava giunsero a notizia di Pancrazio e di Dionigi. Per soddisfare ad una innocente curiosità risolsero di andar anch’essi a vedere quell’uomo che era divenuto l’oggetto dell’ammirazione di tutti i buoni. Giunti all’entrata di quel sotterraneo si misero a picchiare. Corse il portinajo del papa, di nome Eusebio, che partecipò l’ambasciata al papa, e Cajo comandò che fossero immediatamente introdotti. … Il nipote Pancrazio non tardò molto ad andare a raggiungere l’amato zio nella patria dei beati. Pochi giorni dopo mentre veniva dall’abitazione del Pontefice, una turba di birri si accorsero che egli era cristiano. Il lasciarono entrare nella propria casa, dipoi gli tennero dietro e strettamente legato lo condussero dinanzi a Diocleziano … che ordinò che gli venisse troncato il capo. … Pancrazio si prostrò ginocchioni e baciò il terreno dicendo “O fortunato Campidoglio o fortunato Campidoglio!” … e in quel momento gli fu vibrato un colpo di scimitarra che troncandogli le parole sulle labbra gli spiccò il capo dal busto. Pancrazio compieva il suo glorioso martirio il 12 Maggio nel 293 in età di circa quattordici anni. Con la morte di Sebastiano e col martirio di Pancrazio si compievano nove anni del pontificato di s. Cajo… Faceva anche frequenti gite a casa di Cromazio, a casa di Castulo, e a casa di Gabinio suo fratello. … Due mesi dopo la morte di Gabinio, cioè il 23 aprile, Cajo veniva scoperto e raggiunto dai carnefici che furiosi gli troncarono la testa senza che siansi potute raccogliere maggiori circostanze del suo martirio. Questo fatto compievasi l’anno 296.

Thermae Agrippae, stagnum Agrippae, Horti.

Le Thermae Agrippae, costruite nel 25 a. C., sorgevano nella zona a nord di Largo Argentina, tra Corso Vittorio Emanuele e via di S. Chiara, e si estendevano tra Largo di Torre Argentina, Via di Torre Argentina, via Arco della Ciambella e Via dei Cestari. Nell’80 d. C. andarono a fuoco ma furono restaurate da Tito o da Domiziano, e poi ancora da Adriano. Un’iscrizione ritrovata vicino a S. Maria in Monterone fa riferimento ad un restauro di Costanzo. A ovest delle Terme, tra corso Vittorio Emanuele e la via de’ Nari fu fatto lo stagnum Agrippae, un lago artificiale. Le Thermae Agrippae, lo stagnum Agrippae e gli Horti formavano un complesso unico. Dal secolo VII il monumento appare distrutto ed i suoi marmi venivano bruciati, da qui il nome Calcararium dato dalle fonti medievali.

– località Piscina, Pisciola, de pisciola, de pisciola ad funarios, de piscibus.

Il largo davanti la chiesa di S. Stefano in Piscinula veniva chiamato piazza della Piscina, e la chiesa veniva definita de pisciola, de pisciola ad funarios, de piscibus. Nei Mirabilia viene chiamata “S. Stephanum in piscina palatium Cromatii praefecti“. Nel catasto del Gonfalone del 1522 viene ricordata come S. Stefano di Picchierari o Bicchierari, nome derivato da una “fornace de li bicchieri“.

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Edicola di S. Stefano in Piscinula.

– chiesa di S. Stefano in Piscinula, de Piscina, de piscibus, de Pisciola, a la chiavica di S. Lucia.

La chiesa di Santo Stefano in Piscinula è una chiesa scomparsa di Roma, nel rione Parione. Essa si trovava in via dei Banchi Vecchi, quasi dirimpetto alla chiesa di Santa Lucia del Gonfalone, all’incrocio con il vicolo Cellini. Sull’edificio che ne include l’area, oggi è collocato un medaglione con l’immagine del santo titolare, il protomartire santo Stefano, a ricordo dell’antico luogo di culto. La chiesa di S. Stefano de Piscina è annoverata fra le filiali di S. Lorenzo in Damaso, nel 1186 è nota con i nomi di S. Stephani de piscibus, S. Stephani in piscinula, S. Stefano de Pisciola, e S. Stefano a la chiavica di S. Lucia. Questa chiesa era vicinissima a quella di S. Lucia in Gonfalone o della Chiavica, presso quell’edificio che nel medio evo veniva chiamato Palatium Cromacii. Il luogo della chiesetta di S. Stefano è segnato in alcune piante dei secoli XVII e XVII nella via dei Banchi Vecchi, quasi di fronte alla chiesa di S. Lucia del Gonfalone, l’edificio appare inserito nell’isolato quadrangolare che affaccia sulla piazza Sforza Cesarini. Racconta il Fea che nel 1741 sotto la chiesa “si trovò un’antica fabbrica romana di curiosa struttura che gli antiquari credettero essere stata una privata piscina da cui ebbe il nome la chiesa, ivi si trovarono colonne di verde antico bellissimo“. La chiesa fu riedificata nel 1750, e sarà distrutta prima del 1870. Un’immagine di S. Stefano è stata collocata nel posto occupato dalla chiesa, all’angolo delle case dirimpetto a S. Lucia, a ricordo dell’edificio distrutto.

– chiesa di S. Lucia del Gonfalone, in Pescivoli, della Chiavica, de la chiavica de Ponte.

La chiesa di S. Lucia del Gonfalone, veniva chiamata anche anche sanctam Luciam novam, S. Lucia nuova, S. Lucia in Pescivoli, S. Lucia della Chiavica, e S. Lucia de la chiavica de Ponte. In un documento del 1352 la chiesa ha la denominazione di sanctam Luciam novam e si ricorda che era ancora viva in quel secolo la memoria dell’edificazione della chiesa. L’anno 1371 troviamo la seguente notizia “Lippus Rubeis funerarius de regione Parionis et parochiae sancti Stephani prope sanctam Luciam novam“. Veniva chiamata anche S. Lucia in Pescivoli, S. Lucia della Chiavica, e S. Lucia de la chiavica de Ponte, e al suo altare venivano portati occhi d’argento e di cera, come offerte votive, e anche Benvenuto Cellini lavorò ad uno di questi occhi. Fra le numerose località che presero il nome da una chiavica questa è quella più spesso ricordata, e la chiesa veniva chiamata sia S. Lucia nuova, che S. Lucia del Gonfalone, che S. Lucia della Chiavica. Talvolta la Chiavica di S. Lucia veniva chiamata anche Chiavica de Ponte, o chiavica per antonomasia come nel 1478 quando viene definita “locum ubi dicitur la Chiaviga“. Il nome de Ponte veniva spesso dato alla Chiavica di S. Lucia, come nel 1898 quando la chiesa fu chiamata “Santa Lucia de la chiavica de Ponte“. La via o piazzetta della Chiavica di S. Lucia ora fa parte di via dei Banchi Vecchi.

– chiesa di S. Lorenzo in Piscivolis.

La chiesa era situata vicino S. Lucia della Chiavica.

– chiesa di S. Andrea de Aquariatris, Aquarenarii, de Aquaricciaris.

La chiesa forse sorgeva dove è oggi la chiesa di S. Maria della Pace, e si trovava perciò entro i confini dell’antica parrocchia di San Biagio de Oliva. Gli autori ritengono che forse la chiesa ai tempi di Cencio Camerario veniva chiamata S. Andrea del pozzo di Proba. Nel 1380 viene ricordato “Georgius Georgi de regione Pontis, et parochia sancti Andreae de Aquaricciaris“.

– località Calcararii, de Calcarariis, de’ Calcararii, de Calcarario, de Calcariis, Calcarii, ad Calcaria.

Dalle fonti conosciamo l’esistenza della Schola Calcariensium, la corporazione dei calcararii (Cod. Theod, XII, I, 37), menzionata anche in due iscrizioni ritrovate nei pressi delle Terme di Diocleziano. Secondo alcuni autori nei pressi delle Terme e del Vicus Pulverarius sorgeva la sinagoga dei Calcarenses. Il Vicus Pulverarius è attestato nella Regio I dalla Base Capitolina (CIL, VI, 975), e dalle fonti medievali. La contrada dei Calcararii o Calcarii si estendeva a nord del Circo Flaminio fra piazza Mattei, la soppressa piazza S. Nicola de’ Cesarini, e le Terme di Agrippa. Nel 1023 compare per la prima volta il nome della contrada “ad Calcaria“. Nel 1540 le Taxae viarum riportano lo “Iettito et taxa per riaconciare la chiavica de Calcararj” dove c’erano le località dette strada de’ catinari, via verso Sancta Anna, via de San Marco che vene verso Calcararj e Pontiche obscure“. Questa contrada ha dato il nome alle chiese di S. Nicola de Calcarario o de’ Cesarini, S. Lorenzo de Calcarariis, SS. Quaranta de Calcariis, S. Salvatore de Gallia o de’ Calcararii. Il Marchetti Longhi dà alla contrada questi confini:

a) Chiesa delle Stimmate, Corso Vittorio Emanuele fino allo sbocco dell’Arco dei Ginnasi;

b) il rettifilo Via Florida – Via Botteghe Oscure fino all’angolo di via de Funari;

c) via de Falegnami fino a piazza Mattei;

d) vicolo e piazza Paganica.

– località Arco dei Calcarari.

In una donazione del 1192 fatta alla chiesa S. Maria Domine Rose, che sorgeva dove ora c’è la chiesa di S. Caterina de’ Funari, sono descritti i confini del castellum aureum o Circo Flaminio con queste parole “ab utraque parte vie et piscinam cume turre Salitule usque in arcum Sellariorum“. In un documento dell’anno 1395 leggiamo “arcum antiquitus vocatum Sellariorum et nunc vocatur Calzellariorum“. Sorgeva nella via pubblica parallela a quella di S. Ambrogio della Massima, e coincide con l’Arco de’ Boccamazzi.

– località Arco Boccamazzi.

In un documento dell’anno 1491 viene ricordato “macellarius ad archum de Bochamatiis prope plateam Iudeam“. In un documento dell’anno 1538 viene ricordata la “domus Alexii de Buccamatiis inter plateam illorum de Matteis que domus dicitur la casa dell’Arco“. Corrisponde all’Arco detto dei Calcarari e dei Sellari.

Le chiese ricordate con questo toponimo sono numerose:

– chiesa di S. Nicola de Calcarario, Calcararium, de Calcaris.

La chiesa di S. Nicola de Calcarario, che viene chiamata Calcararium da Cencio Camerario, e de Calcaris dal Signorini, corrisponde oggi a S. Nicola de’ Cesarini sulla via e piazzetta omonima. Le fonti riferiscono che era congiunta al palazzo di monsignor Cesarini e che all’epoca dicevasi S. Nicola de Calzolari. Nel secolo XI veniva specificato che la zona “de calcarario” era “in regione vineae Thedemarii“. In un documento del 1369 ritroviamo questa descrizione “Franciscus Pucci notarius de regione Campitelli donat Dominae Lellae filiae D. Nicolai de Buccamatis unum accasamentum sive palatium in parochia s. Nicolai de Calcariis vocatum el palazzo novo“. Nel XIV secolo era della terza partita ed aveva un sacerdote, e nel cortile del Convento furono ritrovati i resti del Tempio di Ercole Custode.

– chiesa di S. Lorenzo de Calcarario.

La chiesa di S. Lorenzo de Calcarario, sorgeva nella contrada posta nelle adiacenze di via Cesarini non lontano dal Palazzo Cesarini poi Vitelleschi. La chiesa veniva chiamata anche in pensilis. L’area più anticamente veniva chiamata “in Palatinis“, o “de in Pallacinis“. Il Grimaldi dà l’esatta posizione topografica della chiesa che era quasi dirimpetto al Palazzo Mattei, e che fu distrutta nella fabbrica del Monastero di S. Caterina de’ Funari.

– chiesa dei S. Quaranta de Calcariis.

La chiesa dei SS. Quaranta de Calcariis sorgeva su quel tratto della via Papale detta ora de’ Cesarini. La chiesa prese il nome dal Calcararium, ovvero i forni di calce che sorgevano in zona. Nel XIII secolo viene chiamata ecclesia sanctorum Quadraginta de calcariis, ed era servita da un sacerdote. Nel XVI secolo veniva chiamata anche SS. Quaranta de Leis da una famiglia che nel luogo possedeva diverse case (Lonigo). La chiesa, distrutta nel 1595, verrà poi ricostruita e dedicata alle SS. Stimmate di San Francesco. Nello scavo delle fondamenta fu ritrovato molto materiale archeologico descritto dal Terribilini “10 aprile: nelle fondamenta si trovò una tessera di rame col nome di … imperatore, molte lucerne, alcuni frammenti di lapidi, una medaglia di Giulia Pia e delle medaglie antiche dei secoli imperiali“.

– chiesa di S. Salvatore de Calcarariis.

La chiesa di S. Salvatore de Gallia de Calcarariis, sorgeva nei pressi del Circo Flaminio laddove oggi ci sono le chiese di S. Nicola e delle SS. Stimmate. Dal Codice di Torino risulta che era piccola e abbandonata e senza servitori. Il Signorili la chiama de Gallia dai francesi che la possedettero fino al 1478, quando la permutarono con la chiesa di S. Maria de Cellis per erigere la loro nuova chiesa.

– località Vigna Tedemari

Nella divisione rionale del XIV secolo la Vigna di Tedemario era unito con quello di S. Eustachio Regio Octava. Regio sancti Eustachii et Vinea Tedemari. Nella divisione che risale ad Onorio III ma forse è dell’XI secolo, la regione vinea Tedemari è la XI. La vigna forse deriva il suo nome da Tedemario Guastaldo, personaggio documentato nel 945, ma anche altri personaggi con il nome Tedemario sono ricordati nel 1014, nel 1093, 1173 e nel 1184. Nel 1286 “Pietro di Giovanni Foschi della piazza che dicesi dei Giudei, vende a Giovanni di Cintio Papareschi un palazzo posto nel Rione della Vigna” (Carte Corvisieri, Arch. Capitolino, busta XV). Nel 1322 si registra “in regione Vinea Thedemarii et contrada Buccamatii“. Nel 1369 “Angela vedova di Guglielmo Cesarini, della regione Vinee Thedemarii, vende un palazzo presso S. Nicola de Calcarario“. Nel 1491 viene ricordato un “macellarius ad arcum de Bochamatii propre plateam Iudeam“. Nel 1524 viene ricordata una “domus in platea hebreorum“. Questa piazza dei Giudei era al Calcarario. La Regio Tedemarii occupava in parte la contrada del Calcarario, e si estendeva dalla moderna piazza di S. Nicola de’ Cesarini, e piazza S. Elena, fino a la piazza dei Satiri. Talvolta la regione è chiamata soltanto Vigna.

– piazza e via Cesarini.

La piazza e la via de’ Cesarini prendevano il nome dalle case della famiglia Cesarini, distrutte. Incorporata nel Corso Vittorio Emanuele, e parte nella via di Torre Argentina, che si diceva strada dei Cesarini fin presso la chiesa di San Benedetto dei Norcini (Libro delle primogeniture in Arch. Capitolino, sez. V, c. 131, del 1625 al 1644; palazzo e case dei Cesarini, e vie e piazze adiacenti). Il nome di via de’ Cesarini fu applicato anche alla strada fra piazza del Gesù e via di Torre Argentina fin dopo il 1870. Il Nolli e il Falda registrano sotto il nome di strada dei Cesarini solo il tratto fra l’odierno Corso Vittorio Emanuele e Largo Arenula. I Cesarini si chiamavano in realtà Montanari ed è con questo nome che troviamo notizie nell’anno 1328 “Lucia vedova di Leone di Cesario Montanari, e figlia di Palmerio dei Tartari, vende a Lucia di Giovanni di Cesario della regione Vigna Tademari una casa presso S. Nicola de’ Calcarari, confinante con la via pubblica seu platea Cesarinorum“.

vicolo Cesarini.

Vicolo che oggi corrisponde a via dell’Arco de’ Ginnasi, che dalle Botteghe Oscure sboccava nella Via Papale, oggi Corso Vittorio Emanuele. Nel XVII secolo, la famiglia Cenci possedeva una “Casa nel vicolo dei Ginnasi incontro l’Arco“. Prima che prendesse il nome di Arco dei Ginnasi, questo veniva chiamato Arco della Luna e corrisponde all’Arco delle Botteghe Oscure. L’arco prima di prendere il nome dalla famiglia Ginnasi prendeva il nome dalla famiglia Amadei.

– località Banchi, Banchi Vecchi, Banchi Nuovi, Retro Banchi.

La contrada che si estendeva tra le vie di Banchi Vecchi, di Banchi Nuovi e di Banco S. Spirito aveva questi confini: “Si dichiara intendersi il nome di Banchi dal vicolo del Pavone presso al palazzo della Cancelleria per la strada dritta di Banchi fino in Ponte; e dal palazzo a San Biagio per strada Giulia e via Florida, e dal vicolo del Pavone per la strada di Monte Giordano che viene alla Zecca; e da Monte Giordano dalla strada di Panico fino in Ponte, comprendendosi anco la piazza dell’Altoviti e l’altra che va verso Tor di Nona” (grida del Governatore di Roma). Questa località compresa tra il palazzo di San Biagio per strada Giulia, fra via Banchi Vecchi e il Tevere, veniva chiamata Retro Banchi. Il Canale di Ponte diventa Via Banchi Nuovi quando il palazzo della Zecca passò al Banco di S. Spirito. Il Martinelli così descrive la via del 1644 “via de Banchi, dove sono diversi mercati, depositarij di Monti, negotianti, notarij Camerali e dell’Auditore della Camera, banderari, trinaroli, sarti, guantari, e fondachi di drappi. Cominicia da Ponte S. Angelo fino a S. Lucia et al Monte Giordano“.

– località Monte dei Cesarini.

L’odierna via del Sudario si chiamava Monte dei Cesarini perchè vi sorgeva il Palazzo Cesarini, ora distrutto, e perché dal lato della Torre Argentina vi erano molte altre case che appartenevano alla famiglia. Viene definita anche dei Boccamazza.

– località Brega dei Cesarini.

Il nome derivava forse da un’immagine posta dove la via di S. Nicola de’ Cesarini sboccava in via delle Botteghe Oscure.

– località Monte della Farina.

Il nome veniva dato all’attuale via fra il Sudario e S. Carlo ai Catinari. L’odierna via di S. Anna prima si chiamava via Monte della Farina e sfociava nell’omonima piazzetta detta Monte della Farina.

– contrada Bochamatii, Buccamatii, Buccamazzi, Boccamazzi, Bucchamatiorum.

La contrada Buccamazzi si estendeva nelle odierne via dei Barbieri e via Monte della Farina. Un documento parla dell’Ospedale di S. Andrea dei Teutonici ancora esistente in via Monte della Farina, procedendo a sinistra verso la chiesa di S. Carlo ai Catinari, che era quasi di fronte alla distrutta chiesa di San Biagio dell’Oliva. Negli anni 1372 e 1379, don Nicola da Culm, fondatore dell’Ospedale, comprò diverse case vicino alla sua abitazione in contrada de Buccamatiis per farvi l’ospedale.

– chiesa di San Biagio de Oliva, o della Fossa.

La chiesa di San Biagio de Oliva o degli Anelli sorgeva in via Monte della Farina, angolo nord con via dei Chiodaroli, venne distrutta nel 1617. In un documento dell’anno 1426 viene chiamata “Ecclesia S. Blaxi de Oliva Fosse Cupe“. La chiesa veniva chiamata anche della fossa, della Pace, ovvero in Trivio, ed era una chiesetta di Parione ove oggi c’è ancora via della Fossa.

– località Fosse Cupa, Fosse Cupe.

Località in rione Arenula presso il Monte della Farina. In un documento dell’anno 1426 il toponimo viene ricordato insieme alla chiesa di San Biagio de OlivaEcclesia S. Blaxi de Oliva Fosse Cupe“.

– località Pozzo bianco.

La contrada Pozzo bianco è uno dei riferimenti topografici che più spesso ricorrono nei documenti riguardanti i confini tra il rione Parione e quello di Ponte, e corrispondeva alle attuali via e piazza della Chiesa Nuova, cioè alla piazzetta di fronte alla chiesa di S. Maria in Vallicella e alle località circostanti. Nel 1503 furono messe a fuoco “tutte le botteghe delli spagnoli nella Canale de Ponte et Pozzo bianco“. Il 18 ottobre 1549 il Camerlengo ordinava di allontanare “meretrices in vicis et vicinatis putei albi et Pizimeroli vulgariter nyncupatis Jordani inclusive“. Il nome deriva da un pozzo, interrato nel 1575, che dava l’acqua ad un sarcofago in marmo bianco trasportato al Gianicolo, dove fu collocato sotto la quercia del Tasso. Il luogo aveva una pessima reputazione, perché era un postribolo.

– chiesa di S. Elisabetta a Pozzo bianco.

La chiesa e il monastero di S. Elisabetta, che sorgevano a levante di S. Maria in Vallicella, nel luogo ora attraversato dalla via della Chiesa Nuova, furono chiamati di Pozzo bianco. Nel 1613 troviamo la descrizione di una casa che sorgeva nella “piazza di pizzomerlo o pozzo bianco ovvero piazza di Sforza“. La chiesa e il monastero furono demoliti nel 1580.

– località Pizzomerlo.

La contrada di Pizzo merlo era congiunta con quella di Pozzo bianco, e si estendeva all’incirca fra piazza Sforza Cesarini e via dei Cartari. In un documento del 1422 “In domo Thederici in piccomierolo“. Nel 1471 viene definita “pozo merula“. In un documento del 24 dicembre 1474 troviamo “domum turrim appellatam cum puteo et area seu horto positam in regione Parionis et parrocchia S. Stephani de Pisciola ac contrada Pretzemoli“. Giorgio de Croce, nel suo testamento del 9 ottobre 1485 lascia una “casa a piazza Pizzomerlo“. Nelle piante del XVI secolo la stessa piazza dove sboccava via dei Filippini viene chiamata sia Pizzomerlo che Pozzo bianco. La località si diceva anche Rua Catalanain loco qui dicitur pizomerlo sive la rua catalana“.

Rua Catalana.

Questa strada correva presso piazza Sforza Cesarini, già Pizzomerlo, e va probabilmente da identificarsi con l’attuale via Sforza Cesarini che dal Corso Vittorio Emanuele va in Banchi Vecchi. In un documento dell’anno 1500 troviamo “in loco qui dicitur pizomerlo sive la rua catalana“. Il nome derivava dagli spagnoli che abitavano in zona. Viene indicata negli anni 1487 e 1515 anche come “contrada della rua a presso a pocio bianco“.

Gli elementi che possiamo desumere da tutte queste fonti sono i seguenti:

a) presso il palatium Chromatii in Parione c’era un luogo “ubi Iudaei faciunt laudem“;

b) il palatium Chromatii sorgeva presso la chiesa di S. Stefano in Piscinula;

c) la chiesetta di S. Stefano in Piscinula, o de piscibus, o de Pisciola, o alla chiavica di S. Lucia era inserita nell’isolato quadrangolare che affacciava sulla Piazza Sforza Cesarini, sulla via dei Banchi Vecchi quasi di fronte alla chiesa di S. Lucia del Gonfalone.

Dopo questa lunga parte introduttiva, possiamo concludere che tutti questi elementi sono concordanti per collocare la sinagoga dei Calcarenses su di via dei Banchi Vecchi alle spalle di piazza Sforza Cesarini, nel luogo dove sorgeva la chiesetta di S. Stefano, il cui edificio era inserito nell’isolato quadrangolare che affaccia sulla piazza Sforza Cesarini, quasi di fronte alla chiesa di S. Lucia del Gonfalone. Mentre il Palazzo di Cromazio affacciava sulla Piazza Sforza Cesarini a mano sinistra di Corso Vittorio Emanuele, la sinagoga occupava l’isolato quadrangolare di Palazzo Cesarini con affaccio su Via dei Banchi Vecchi.

SINAGOGHE DELL’ESQUILINO

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1777 Rione Monti.

Sinagoga dei SICINENSES presso S. Maria Maggiore

Torniamo sull’argomento della sinagoga dei Sicinenses.

Gli studiosi, a cominciare dal Frey, attribuiscono il nome ad una comunità di Ebrei provenienti da Skina, oggi Medinet es-Sultan, porto dell’Africa del nord, indicato nella Tabula Peutingeriana come “Scina, locus Judaeorum Augusti“, nell’Itinerario Antonino come “Iscina“, e in Tolemeo come “ICKINA“. La sinagoga dei Sicinenses raggruppava gli Ebrei che abitavano sull’Esquilino in località detta Sicininum, nei dintorni dell’area su cui sorgerà la basilica di S. Maria Maggiore. Topografia dell’area compresa fra le zone de Aggere, Sicinino, e in Macello.

– località de agger.

Le Mura Serviane dopo la Porta Quirinalis giravano a sud raggiungendo la Porta Collina, e da qui cominciava l’Agger il tratto più fortificato delle mura. Questo tratto era l’Agger per eccellenza definito “aggere in aprico spatiari“, ed era il luogo più alto di tutta Roma. L’Agger si estendeva fra la Porta Collina e la Porta Esquilina, al centro del quale si apriva anche la Porta Viminalis, ora in piazza dei Cinquecento. La Porta Collina si apriva sull’Alta Semita, corrispondente a via del Quirinale e via XX Settembre, e resti della porta sono stati scoperti al momento della costruzione del Ministero delle Finanze, al di sotto dell’angolo nord dello stesso. La Porta Esquilina corrisponde oggi all’Arco di Gallieno, presso via di Carlo Alberto. Seguendo via di Carlo Alberto di fronte alla facciata di S. Maria Maggiore c’è un frammento delle Mura Serviane, e svoltando a destra nella via dove c’è la chiesa di S. Vito troviamo l’Arco di Gallieno, corrispondente all’antica Porta Esquilina. I resti più importanti dell’Agger sono ora in piazza dei Cinquecento e piazza Manfredo Fanti. Le mura proseguivano verso Largo Leopardi dove erano addossate all’Auditorium di Mecenate. Il clivus Suburanus costituiva l’asse principale della III Regio da est a ovest, si dirigeva alla Porta Esquilina e poi, forse già con il nome di Via Labicana, fino a Porta Maggiore. Da nord a sud due vie seguivano le Mura Serviane, una al di sotto Subagger, e l’altra al di sopra Superagger. L’Agger venne distinto in de Aggere, in sub Aggere, e in super Aggere.

proseuchà de aggere.

Un’iscrizione sepolcrale pagana ricorda che Corfidio di Segni aveva una bottega di frutta nei pressi della proseuchà che sorgeva presso l’aggere

CORFIDIO  SIGNINO 

POMARIO  DE  AGGERE

A  PROSEUCHA

(Frey 531: trovata “via Gabina extra portam”).

– località de aggere.

Ricorre nell’iscrizione di Corfidio di Segni che aveva una bottega di frutta nei pressi della proseuchà che sorgeva presso l’aggere

– località super aggere.

In un documento dell’Anno 1051 si ricorda “in loco qui vocatur Superage non longe a Sancta Maria Maiore“. Nel 1527 viene chiamato Superagius. Corrisponde al piano della Stazione Termini.

– località sub aggere.

Giovenale ricorda “ventoso sub aggere“. La Notitia parla di “campus Viminalis sub aggere“.

campus Viminalis subager.

Viene chiamato campus Viminalis subager, e identificava probabilmente una località posta fuori l’agger e non lontano dalla Porta Viminalis.

– località in Sicinino

Il toponimo in Sicinino, in Sicininum, in Sicinini regione, viene ricordato in numerose fonti:

a) nell’editto di Tarracio Basso;

b) due volte nel Liber Pontificalis, nella vita di Silvestro “in Sicinini regione“, e nella vita di Sisto “domum Claudi in Sicininum“;

c) nel Cod. Vat. 496 basilica Sicinini.

d) in un’iscrizione ritrovata nei pressi di S. Maria Maggiore si ricordano i Cicinenses.

– basilica S. Maria Maggiore o basilica Sicinini.

La basilica di Santa Maria Maggiore fondata secondo la leggenda da Papa Liberio (352-366) ed eretta nel luogo di una miracolosa nevicata, avvenuta il 5 Agosto del 352, nel Liber Pontificalis viene così definita “Hic fecit basilicam nomini suo iuxta Macellum Liviae”. Ma la basilica è nota fin dal IV secolo anche come basilica Sicinini, e S. Girolamo e Rufino la chiamano Sicininum. In un altro documento leggiamo “ubi redditur basilica Sicinino“. La basilica era circondata da quattro monasteri:

a) monastero Ex aiulo, ovvero S. Andrea e Stefano; nel secolo XIV questo monastero convertito in ospedale veniva chiamato in aggere o in superagio, nome che ricordava corrottamente l’antico agger di Servio presso al quale era appunto quell’edificio.

b) monastero in Vespani, ovvero S. Cosma e Damiano, il cui nome si riferiva forse a Vipsano Agrippa;

c) monastero Massa Iuliana, ovvero S. Andrea, era presso la villa di Mecenate;

d) monastero ad duo furna, ovvero S. Lorenzo, Adriano, Prassede e Agnese.

– chiesa di S. Andrea in Massa Iuliana, o Catabarbara Patricia.

Era in origine una basilica profana dedicata a Giunio Basso, che Simplicio (468-483) dedicò a S. Andrea. Gregorio Magno in un’Omelia ricorda “Habita in basilica s. Andreae post praesepe“. Leone III (795-816) restaura il tetto della chiesa di S. Andrea “quae appellatur catabarbara patricia“. Presso questa basilica c’era il monastero detto “Barbarae” e “catabarbara patricia“. Da un documento dell’anno 908 sappiamo che S. Andrea era chiamato anche in Massa Iuliana. Il luogo del monastero e della chiesa fu altre volte detto anche in aurisario.

– Chiesa di SS. Cosma e Damiano di S. Maria Maggiore

Era assai antica.

– località duo Furna, Duas Furnas, Fornora, Tre Forni.

Località in rione Monti, a oriente della Chiesa di S, Prassede. Nella biografia di Leone III (795-816) leggiamo “oratorium S. Agnetis qui ponitur in monasterio qui appellatur Duo Furna“. Nell’Anno 996-999 viene ricordato il monastero “qui appellatur Duas Furnas“. Veniva chiamato anche Fornora e Tre Forni.

– località Massa Iuliana.

Località che corrisponde al capo del Clivus Suburanus e ai pressi di S. Vito e S. Giuliano a sud-ovest di S. Maria Maggiore. Dava il nome anche ad una chiesetta di S. Andrea, abbandonata nel XIII secolo. Da un documento del Regesto Sublacense dell’anno 977 sappiamo di un orto situato nella regione III, nel luogo detto Massa Iuliana confinante con S. Scolastica e con la Via Camellaria. Ricorre nell’editto di Tarracio Basso il nome Camellenses, ed è elencato nello stesso frammento dei Caelimontienses con riferimento ad una località del Celio.

S. Scolastica in Massa Iuliana.

La chiesa di S. Scolastica sorgeva sull’Esquilino presso l’antica diaconia dei santi Vito e Modesto e dell’Arco di S. Vito, e la via forse prendeva il nome dalla cancelleria della basilica liberiana. Da un documento del Regesto Sublacense dell’anno 1031 sappiamo che esisteva dal XI secolo, e dipendeva dal monastero e chiesa di S. Erasmo al Monte Celio.

S. Maria in campo, de campo, de Puteo.

Ai piedi del Viminale vi era una chiesa dedicata in origine a S. Maria che dicevasi in campo, de campo, in puteo, che poi venne dedicata a S. Anna degli Albanesi. Nel catalogo delle chiese di Roma dei tempi di Pio V viene elencata “Nel rione delli Monti una chiesa ruinata detta S. Maria Puteo che era degli Albanesi”. La chiesa di S. Anna e un ospedale dedicato agli Albanesi, o Epiroti, vennero abbandonati nel 1587.

de puteo Probae.

Questa località era fra il Quirinale ed il Viminale. Viene ricordata come “in loco qui dicitur Poczo de prova in opposito Eccl. S. Vitalis“. E ancora “Regione VII in loco qui vocatur Proba iuxta monasterim Agatae super Sobora“. Pomponio Leto descrive “non longe a templo S. Vitalis est puteus qui dicitur puteus dne Probae“. Andrea Fulvio ricorda “de Monte Viminale in valle Quirinali fuit etiam puteus d. Probae quem Proba fecit“. Nel 1396 viene ricordato “hospitali de yspanis ad puteum probae“.

– località in Macello.

Il Macellum Liviae era un complesso commerciale edificato sull’Esquilino da Augusto e dedicato a sua moglie Livia. Su un’iscrizione si ricorda un restauro effettuato tra il 364 e il 378 da Valentiniano I, Valente e Graziano, inoltre, questo macellum, è raffigurato sul frammento 4 della Forma Urbis Severiana. Nel Chronicon di Benedetto da Soratte, all’anno 921 si menziona la “aecclesia Sancti Eusebii iuxta macellum parvum“. Nel Liber Pontificalis la chiesa di S. Maria Maggiore è descritta come “iuxta macellum Libiae“. La chiesa di San Vito era detta in Macello. L’Ordo Benedicti del 1143, descrivendo la processione annota “intrans sub arcum ubi dicitur macellum Livianum“. Rimanenze corrispondenti alle indicazioni letterarie succitate sono state identificate appena fuori dalla Porta Esquilina a nord della strada: questi resti potrebbero ben corrispondere a quelli del macellum Liviae. Si è rinvenuto, infatti, un cortile aperto, che misura 80 per 25 metri, disposto parallelamente alle Mura Serviane, circondato da un portico con botteghe. Sembra che, dal principio del III secolo d.C., la parte meridionale di quest’area fosse invasa dalla costruzione di edifici privati.

Macellenses.

In un’iscrizione sepolcrale viene ricordato il nome di coloro che abitavano vicino al macellum Liviae.

– chiesa di SS. Vito e Modesto in macello.

Questa antichissima chiesa che forse risale al IV secolo, sorgeva sull’Esquilino e dal secolo IX fu detta in macello. Poco lontano, tra via Carlo Alberto e Piazza Vittorio, c’è la chiesa dei SS. Vito e Modesto, addossata a un antico arco romano, l’Arco di Gallieno. L’arco di Gallieno sorge sul luogo della Porta Esquilina. Nelle antiche mappe di Roma nella zona dell’Esquilino tra Santa Maria Maggiore e le Mura Aureliane appaiono sempre, oltre ai Trofei di Mario, e al Tempio di Minerva Medica, alcuni edifici: la chiesa di San Vito e Modesto con addossato l’Arco di Gallieno, e la chiesa di Sant’Eusebio.

– chiesa di Sant’Eusebio.

La chiesa di Sant’Eusebio secondo la tradizione fu costruita nel IV secolo sull’area della casa del presbitero Eusebio, martirizzato durante la persecuzione dell’imperatore Costanzo. Nel Catalogo Gelasiano del 494 viene ricordato “Valentinus archipresbiter in titulo s. Eusebii in Esquiliis“. Nella catacomba di Marcellino e Pietro sulla Via Labicana è stata ritrovata uniscrizione del IV secolo di Olympi lectoris de dominico Eusebii, che ci fa sapere che la domus Eusebii venne trasformata in dominicum. Nell’anno 1699, il duca di Urbino fece fare non lontano dalla chiesa, e precisamente avanti i Trofei di Mario, un gran cavo ove trovò “una piccola cappella con imagine che ora non c’è più“. La chiesa di Sant’Eusebio, che oggi si trova nell’angolo nord-occidentale di Piazza Vittorio, fu rinnovata più volte.

Nell’area dove nel IV secolo sorgerà la basilica di S. Maria Maggiore esisteva una località chiamata Sicinino, dove un gruppo di ebrei costruì la propria sinagoga che prese il nome dalla toponomastica del luogo. Crediamo che per la vicinanza tra la località de aggere dove sorgeva una sinagoga, e la località Sicinino dove esisteva una sinagoga è possibile che la proseuchà de aggere sia da identificare con la sinagoga dei Sicinenses. Da tutto quanto sopra esposto sappiamo che:

a) l’iscrizione del pomario Corfidio viene datata al I-II secolo d. C. e ricorda una proseuchà;

b) la proseuchà ricordata nell’iscrizione del I-II secolo d. C. corrisponde alla sinagoga dei Sicinenses che è del I-II secolo;

c) ne consegue che la località Sicinino che dà il nome alla sinagoga ricordata nell’iscrizione del I-II secolo d. C., è antecedente e deriva il suo nome da un elemento ancora ignoto.

 

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Giuseppe Vasi, Piazza alli Monti (1752).

Sinagoga dei Suburenses

Torniamo sull’argomento della sinagoga dei Suburenses. La Suburra era il nome dato alla vallata tra la parte meridionale finale del Viminale e la parte occidentale finale dell’Esquilino, che era collegata con il Foro mediante l’Argiletum, e continuava ad oriente fra l’Oppio e il Cispio attraverso il Clivus Suburanus, fino alla Porta Esquilina. Un’altra depressione si estendeva dalla Suburra verso settentrione fra il Viminale e il Quirinale, e a nord-est tra il Cispio e il Viminale dove correva il Vicus Patricius. La valle settentrionale della Suburra era attraversata nel tratto occidentale dall’Argiletum che poi si suddivideva nel Vicus Patricius a sinistra (Via Urbana), e il Clivus Suburanus a destra (via in Selci). Il Vicus Patricius segnava il confine tra la Regio IV e la Regio V e proseguiva fino alla Porta Viminalis, mentre il Clivus Suburanus terminava alla Porta Esquilina. A sud la via antica (oggi Via Labicana) costituiva l’asse est-ovest principale della Regio III. Da nord a sud due vie seguivano le Mura Serviane al di sopra e al di sotto dell’Agger che prendevano il nome di Superagger e di Subagger. Al di fuori delle Mura Serviane correva la Via Merulana antica, che iniziava all’angolo settentrionale di piazza Vittorio Emanuele per arrivare, a sud, in Laterano all’altezza dell’Ospedale di San Giovanni. Al di fuori della Porta Esquilina, per secoli, si era esteso un enorme cimitero, la Necropoli Esquilina.

La Suburra veniva distinta con nomi diversi:

  1. a) primae fauces Suburra;
  2. b) in capite Suburra;
  3. c) Suburra maior, ad Nymphas;
  4. d) Suburra minor.

– località Suburra.

Il nome continuò ad essere usato anche in età medievale, dando il nome a numerose chiese situate tra la Torre dei Conti e S. Pietro in Vincoli. In un documento dell’anno 1451 “quae domus … positae sunt in contrada Subure vel turris de Comitibus“. I Martinelli scrive “Suburra, nella quale si lavorano l’achi e concorrono l’Aquilani, dalla Madonna de Monti sino all’Arco di S. Vito“.

– località in capite Suburae, in caput Suburae.

La chiesa di S. Lucia veniva dfinita in caput Suburae, in capite Suburrae, o in Silice, o in Orphea. La chiesa di S. Agata veniva definita in capite Suburrae. Oggi esistono la via di S. Agata dei Goti che da Via Panisperna arriva a Via Baccina, e la Via in Selci che cominicia dalla odierna Piazza della Suburra: evidentemente era questa la zona chiamata in capite Suburra.

– località Suburra maior, Sebura maiore ad Nymphas, ad Nymphas, super nymphis.

Un’iscrizione ricorda Sebura maiore ad Nymphas. La località ad Nymphas viene ricordata in due iscrizioni, la prima “Sebura maiore ad Nymphas“, e l’altra che ricorda una donna “quae habitavit ad nymfas“. Con riferimento al Lucus Mefitis che sorgeva “eam partem Esquiliarum, quae iacet ad vicum versus in qua regione est aedes Mefitis“. Un’iscrizione dei tempi di Settimio Severo ricorda “hortulus super nymphis qui locus appellatur Memphi“.

– località Suburra minor.

Suburenses.

L’editto di Tarracio Basso elenca i Suburenses ponendoli di seguito ai Clivumpullenses e ai Tellurenses. Il Clivus Pullius attraversava la Suburra puntando a sud attraverso l’Oppio e il Fagutale, passando nel luogo ora occupato dalla chiesa di S. Pietro in Vincoli. Nel secolo XVI esisteva la chiesa di S. Giovanni in Carapullo, o in clivo Plumbeo. L’aedes Tellus sorgeva sull’Esquilino, alle Carinae, forse fra le attuali Via del Colosseo e Via dei Serpenti. Nel medio evo esisteva il Clivo Plumbeo, corruzione di Clivus Pullius, detto anche Carapullo, Carapallo. Era una località della Suburra in rione Monti, sotto S. Pietro in Vincoli e diede il nome alla chiesa di S. Giovanni in Clivo Plumbeo o in Carapullo.

Molte chiese presero il nome da Suburra e sono:

– chiesa di S. Agata in capite Suburrae, de Suburra.

Chiesa antichissima che nel Liber Pontificalis viene chiamata in capite suburrae. L’Anonimo di Torino pone la chiesa di S. Agata in capite Suburrae fra le chiese della seconda partita fra la chiesa dei SS. Pietro e Marcellino e la chiesa di S. Salvatore  de suburra. Nell’VIII secolo c’era un monastero. Oggi è S. Agata dei Goti.

– chiesa di S. Andrea de Suburra, in Torre Secura, a Torre scura, ad Turrim, de Vincula.

La chiesa viene chiamata de Suburra e anche de Eudoxia, e corrisponde probabilmente alla chiesa che nel catalogo di Pio V è situata nel rione Monti ed è chiamata S. Andrea nel Vicolo. Il Martinelli crede che fosse chiamata anche S. Andrea de Monte e che nell’anno 1564 fu unita a S. Salvatore in Suburra. Il Lonigo crede che la chiesa era chiamata S. Andrea in Torre Secura, e si trovava dirimpetto alla chiesa di S. Maria de Monti. Dalla vicinanza della torre prese anche il nome di S. Andrea ad Turrim. Nell’elenco di Pio V leggiamo “Una chiesa in casa di Madonna Cornelia a Torre scura“. La chiesa venne distrutta nel 1600.

– chiesa di S. Barbara in Suburra.

Nel Liber Pontificalis alla vita di Stefano IV, anno 816 si ricorda “in oratorio sanctae Barbarae martyris in Suburra …“. Non si conosce la posizione dell’oratorio, distrutto da molti secoli.

– chiesa di S. Bartolomeo in Suburra.

La chiesa era annessa ad un antico monastero. Il Signorili la pone fra quelle della terza partita presso S. Andrea de vincula.

– chiesa di SS. Marcellino e Pietro de Suburra.

La chiesa è la stessa che viene chiamata SS. Marcellino e Pietro in Laterano. La chiesa fu chiamata anche de Secura. Scrive il Terribilini “che si vedono attaccate a questa chiesa ruine come di palazzo, e 32 palmi sotterra si è trovata una strada antica“.

– chiesa di Salvatore ai Monti.

La chiesetta esiste ancora, anche se ridotta ad oratorio, in la via Madonna de Monti non lontano dalla Torre dei Conti detta nei secoli Turris secura, e Torre scura.

– chiesa di S. Scolastica.

Da un documento dell’anno 1031 sappiamo che questa chiesa esisteva sull’Esquilino già nel secolo XI ed era posta presso l’antica diaconia dei SS. Vito e Modesto all’Arco di Gallieno, e che dipendeva dalla chiesa e dal monastero di S. Erasmo in monte Celio.

– chiesa di S. Sergio e Bacco de Suburra.

La chiesa è tuttora esistente. Nel catalogo di Torino è detta de Suburra. Dal 1718 viene detta anche chiesa della Madonna del Pascolo da un’immagine sacra.

– località Torre della Suburra, Torre Secura.

Detta anche de Secura. La chiesa di S. Salvatore è detta de Suburra, e de Secura. Il Fulvio, nel 1527, scrive “extabat in media via turris cognomento Secura pro Subura, quae hodie a magistris viarum diruta est viae ampliandae causa“. L’Adinolfi la colloca fra la Madonna dei Monti e S. Salvatore de Subura. In un documento dell’anno 1531 “in regione Montium in loco dicto Torresicura“.

Lacus Orphei, in Orphea, iuxta Orfeam.

Una fontana con una statua di Orfeo che sorgeva sull’Esquilino nella Regio V, da collocare forse subito fuori della Porta Esquilina. Si ricorda una “domum in regione orfea intra urbem“. L’editto di Tarracio Basso ricorda i “tabernarii Orfienses“.

– località in Orphea, in Orthea, iuxta Orfeam.

Il lacus Orphei era situato fra l’Arco di Gallieno e l’odierna piazza Vittorio Emanuele. La chiesa di S. Lucia prese anche il nome di in Orphea, e in Orthea, nome derivato dal Lacus Orphei. La chiesa di SS. Silvestro e Martino era detta anche in Orfea, e iuxta Orfeam.

– chiesa di S. Lucia in Orphea, in Orthea, o in caput Suburae, in capite Suburrae, o in Silice.

L’antica diaconia è oggi conosciuta come S. Lucia in Selci. Anticamente era conosciuta anche come de siricata. Nel secolo XV alcuni libri catastali riportano “unum orticellum prope ecclesiam sancte Luciae de siricata in montibus de quo nihil recepit“. La chiesa prese anche il nome di in Orphea, e in Orthea, nome derivato dal Lacus Orphei.

– chiesa di S. Biagio in Orphea.

Antichissima chiesetta che sorgeva non lontano da S. Lucia in Selci, fu detta anche juxta palatium Traiani, ora non esiste più.

– chiesa di S. Martino in Orfea.

Era detta anche in Orfea, e iuxta Orfeam.

La sinagoga dei Suburenses sorgeva in un luogo della vastissima Suburra che al momento non riusciamo a precisare.

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1777 Rione Trastevere.

 

SINAGOGA IN SEPTIMIANO IN TRASTEVERE

Iscrizioni provenienti dal Tevere

Gli scavi del Tevere hanno restituito molto materiale archeologico, comprese le iscrizioni seguenti:

FLABIA . KAI . MARYLLEINA (Frey 288: Notizie Scavi 1904, Gatti “frammento di sarcofago trovato tra Ponte Sisto e ponte Garibaldi“). L’iscrizione funeraria è sicuramente scivolata giù dalla collina del Monteverde, e va assegnata alla catacomba di Via Portuense.

IACON . DIC . ARXON (Frey 289: “trovata ai piedi del Gianicolo, in riva al Tevere, presso la Porta Settimiana“. Ms. De Rossi “piccolo cubo di marmo cavato dal Tevere 12 nov. 1880“, Museo Nazionale Romano).

L’iscrizione non è funeraria ma si riferisce a una elargizione che Iason, due volte arconte, aveva fatto in un edificio di culto che sorgeva in zona. A Corinto, la sinagoga degli Ebrei aveva il nome inciso sull’architrave sottostante la porta d’ingresso all’edificio.

I toponimi che ci aiutano a localizzare questa proseuchà dove Iason fu due volte arconte, sono numerosi:

Porta Settimiana.

La porta sorgeva a sud di Palazzo Corsini, sul lato destro del Tevere. La porta deriva il nome da Settimio Severo, fu ricostruita nel 1498 da Alessandro VI. Il nome venne corrotto in Settignano, Septignani, sotto Giano.

 

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Porta Settimiana.

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Porta Settimiana, G.M. Cassini, acquaforte, 1779

– chiesa di S. Giacomo in Settignano

– località in Septignano, in Septimiano, in Settignano, de Septimiano.

Località attorno alla Porta e alla via Septimiana. Ricostruita da Settimio Severo, rifatta da Alessandro VI rimase nell’interno della città quando Urbano VIII vi incluse il Gianicolo da Porta Portese a Porta Cavalleggeri. Alcune chiese presero il nome dal luogo, come S. Giacomo, S. Lucia e S. Leonardo. In un documento dell’anno 1475 viene ricordata “vineam magnam … positam in Septignano iuxta ecclesiam S. Leonardi“.

– chiesa di S. Leonardo in Settignano.

La chiesa era situata presso la Porta Settimiana nel Trastevere, e sorgeva quasi dirimpetto a Palazzo Salviati alla Lungara. Detta anche de ponte grandinato.

– chiesa di S. Giacomo in Settignano.

La chiesa di S. Jacobo de Settignano corrisponde a S. Giacomo alla Lungara. Altra chiesa romana pressochè ignota ai più. Sorge a metà circa di via della Lungara, e prende il nome dalla non lontana Porta Settimiana, eretta da Settimio Severo e inglobata da Aureliano nel recinto transtiberino delle mura cittadine, ricostruita, nell’attuale aspetto, da papa Alessandro VI. La chiesa è di orgine assai antica, fatta risalire al tempo di Leone IV (847-855).

– chiesa di chiesa di S. Croce delle Scalette.

Costruita nel 1619, sorge quasi di fronte a S. Giacomo, su via della Lungara, è detta anche del Buon Pastore.

– chiesa di S. Giovanni de Porta.

Viene ricordata come “Ecclesia sancte Joannis de Porta“.

– chiesa di S. Silvestro iuxta Porta Septimiana.

La chiesa nel XVI secolo veniva chiamata S. Silvestro della Malva ovvero ad portam. Sembra che venne distrutta per costruirvi nel 1445 la chiesa di S. Dorotea.

Possiamo ragionevolmente ipotizzare che in località in Septimiano, non lontano dalla Porta Settimiana, sorgeva una proseuchà, e tenuto conto che l’iscrizione fu “trovata ai piedi del Gianicolo, in riva al Tevere, presso la Porta Settimiana“, e non lontano dal luogo di ritrovamento cioè proprio ai piedi del Gianicolo e non lontano dalla Porta Settimiana … sopravvive una stradina chiamata Vicolo del Cedro!

Anche se bisogna essere cauti nel formulare questa ipotesi perché qualcuno potrebbe dire che invece del frutto del cedro è frutto della fantasia! Molte volte, però, la fantasia supera la realtà.

downloadMa questa forse è solo suggestione! Si, ma suggestione bella e profumata…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Il più antico cimitero della comunità ebraica di Roma

In occasione della Giornata della Memoria pubblichiamo uno scritto sulla catacomba di Monteverde a Roma di Silvia Allegra Dayan, addetta alla catalogazione presso la nostra Biblioteca.

Questo contributo è dedicato all’amica Daniela Di Castro.

Sotto il regno di Domiziano, una delegazione di quattro Rabbini visitò la comunità ebraica di Roma.

I quattro famosi saggi erano il patriarca Rabban Gamaliel II, Rabbi Akiva, Rabbi Johanan ben Hananiah e Rabbi Joshua ben Azariah.

Durante il viaggio a Roma, i saggi incontrarono la comunità ebraica e in uno di questi incontri si soffermarono a parlare di esegesi con una donna romana, proselita della religione giudaica che pose numerose domande a Rabban Gamaliel circa il Deuteronomio (10, 17) e Numeri (6, 26). Rabbi Joshua rispose alle domande con una parabola, poi venne Rabbi Aquiva che insegnò, e Rabbi Meir che spiegò le diverse sentenze con le preghiere (Ros ha-sana, 1076, 17 b, e 18 a).

Questo viaggio a Roma viene datato al 90-95 d. C. circa, alla fine del I secolo d. C., dove la comunità ebraica era presente da tempo, e la proselita doveva essere un personaggio molto importante tanto da essere ascoltata dai quattro rabbini, che risposero alle sue domande.

Su questa proselita, dal nome particolare, torneremo a parlare dopo.

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Giovanni Battista Nolli, 1748: Roma, particolare della pianta dell’area intorno alla Porta Portese.

 

Nel 1914, in seguito a nuove frane sulla collina del Monteverde, un giornalista si inerpicò fino a raggiungere una spianata polverosa e piena di detriti sulla quale si apriva un ingresso ad un luogo oscuro e tenebroso, un’area di quella che era stata la più grande e antica catacomba della comunità ebraica di Roma.

Su quello spiazzo giocavano alcuni bambini e il giornalista si fermò a chiedere loro notizie su quel luogo così particolare, e uno dei bambini confessò che loro non entravano più in quel cimitero perché avevano paura, ma lui una volta vi era entrato e aveva riportato a casa “un piatto” che il padre gli aveva tolto e lui “non lo aveva visto più”.

Continuò il bambino “Ogni giorno, nel pomeriggio tardi arrivava lì un oste con almeno altre due persone ed entravano in catacomba, da dove uscivano quasi due ore dopo portando via un carretto pieno pieno di roba”. E questo accadeva “tutti i giorni da molto tempo”, e disse ancora il bambino “E’ un oste grosso grosso…”.

Il giornalista dopo quel racconto concluse argutamente che evidentemente “Chi muore fa i conti senza l’oste”.

Ma la catacomba di Monteverde non aveva fatto i conti né senza l’oste né senza i cavatori di marmi che diversi secoli prima avevano cominciato a depredarla, e fra questi c’era anche il fiorentino Bartolomeo Bassi, scalpellino e marmoraro attivo a Roma negli ultimi decenni del secolo XVI sul quale, come per la proselita, torneremo dopo.

Una mattina del 1602, Antonio Bosio si arrampicò sulle alture del Collerosato dove insieme a due amici che lo accompagnavano, riuscì a trovare un imbocco che conduceva nei meandri scavati nel tufo e superato il timore per il pericolo incombente, dovuto alla posizione infelice di quell’ingresso che strapiombava nel Tevere, il Bosio e i suoi accompagnatori riuscirono a penetrare in quella che poi verrà riconosciuta come la più antica catacomba ebraica di Roma.

Questa “scoperta” ufficiale era stata preceduta dall’intensa attività di ricerca fatta dai predatori di marmi che, intrufolandosi in queste antiche gallerie, avrebbero agevolato poi le ricerche e le scoperte degli archeologi.

Roma 1602, Sabato 14 dicembre. Antonio Bosio insieme a Giovanni Pietro Caffarelli e a Giovanni Zaratino Castellini, uscirono dalla Porta Portese e al I miglio della via si inerpicarono sulle colline del Monteverde, dove fecero una straordinaria scoperta…

Antonio Bosio, il padre dell’archeologia sotterranea di Roma, nella sua opera “Roma sotterranea”, dedica l’intero Cap. XXII al “Cimiterio de gli Hebrei ritrovato nella Via Portuense”.

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Antonio Bosio, Roma sotterranea (1632), p. 143

Questa è la sua descrizione:

“… Siamo diverse volte usiti dalla Porta Portuense e andati con diligenza ricercando le Vigne, e campi di essa per scoprir i sacri cimiterij, però ancorché per relazioni di vignaroli vecchi e practici di questi paesi, habbiamo havuta relazione esere tutti quei luoghi vuoti, e con cavi sotto…”.

“… Per l’antichità … avea Pompeo condotto a Roma infiniti Giudei schiavi…”.

“… Si che in tempi di Augusto havevano in Roma la loro sinagoga, facevano le radunanze, e solevano anche mandare in Gierusalem le collette in nome di primitie…”.

“… Essendo venuti alcuni Ambasciatori mandati da Gierusalem al medesime Augusto, furono accompagnati da più di otto mila di quei che all’hora abitavano in Roma…”.

Tiberio confermò le leggi che Augusto aveva promulgato in favore degli Ebrei, ma dopo che gli Ebrei romani cercarono di fare aderire alla loro religione Fulvia, moglie di Saturnino, ne mandò quattro mila in esilio in Sardegna. Domiziano ordinò il Fiscus Iudaicus, e Severo Alessandro riconobbe alcuni privilegi alla comunità ebraica.

“… Fu poi assegnata a detti Giudei per loro habitatione in Roma la Regione di Trastevere… come riferiscono Marziale, Cicerone e Filone”.

“… Anzi durò l’habitatione de’ Giudei in Trastevere fin à secoli poco lontani da’ nostri; rimanendo ancora memoria appresso i vecchi moderni Hebrei per traditione havuta dagli antichi loro, del luogo, ove era la Sinagoga non molto lontano dalla Chiesa di S. Salvatore in Curte, ch’era in quel Rione di Trastevere…”.

“… Ne segue, che dovevano haver’ancora in Roma il loro particolar Cimiterio, fuori d’una delle porte di Trastevere: & essendo Via Portuense più agiata, e comoda, per esser piana, e più vicina della montuosa Aurelia, ne conviene di conseguenza, che il Cimiterio, del qual’hora tratteremo, ritrovato da noi nella Via Portuense, fosse il Cimiterio de gli Hebrei…”.

“… Il detto Cimiterio dunque fu ritrovato in questo modo.

Non restando noi contenti di quei soli aditi Cimiteriali descritti nel precedente Capitolo, seguitammo di ricercare tuttavia con diligenza le Vigne, e luoghi della via Portuense.

E perrò il Sabbato 14 di Decembre dell’anno 1602 essendo usciti dalla medesima Porta in compagnia del Marchese Giovan Pietro Caffarelli nobile Romano, e di Giovanni Zaratino Castellino gentil’huomo ornato di belle lettere, entrammo in quel medesimo primo diverticolo, che si trova a man diritta, salimmo il detto Colle Rosaro, e penetrammo in una Vigna, che fu altre volte del Vescovo Ruffino, & in quel tempo era posseduto dalli figliuoli del q. Mutio Vitozzi. Nell’estremità di questa Vigna, che riguarda il Tevere ritrovammo una bocca di grotta angusta, difficile, e pericolosa, stando alla rupe d’una balza, alla quale soggiace un vallato, ove sono sotto al Cimiterio gran cave di tufo. Entrati dunque per questa bocca con il corpo chino, penetrammo nel Cimiterio; il qual’è intagliato nel tufo, (ancorche in alcuni luoghi assai tenero), & è di mediocre grandezza; percioche in due hore, che vi stemmo, ci parve di averlo circondato tutto; se bene si conosceva esservi de gli altri aditi, e strade ripiene, le quali può essere, che girino molto di più. Questo Cimiterio è fatto alla maniera de gli altricon le sue sepolture intagliate nelli muri; & in alcuni luoghi hà delle fosse ancora, e sepolcri cavati nel pavimento: habbiamo però osservato in esso una cosa differente da gli altri Cimiterij, & è che per il più li sudetti monumenti non sono chiusi con tegole, e marmi; ma con mattoni intonacati di calce, dove quasi sempre con lettere rosse si vedeva esservi stati scritti gli Epitaffi: alcuni de’ quali erano scolpiti anche nella calce, e di essi ne habbiamo ritrovati molti; però tutti in Greco, e guasti, secondo, che sono stati aperti li sepolcri dà curiosi, & avidi Cavatori, e levati parte de’ mattoni, e calce, sopra i quali erano scritti; di modo, che da loro non se ne può cavare senso alcuno perfetto, vedendosi solo il principio, che quasi sempre era il medesimo in tal guisa: ENTADE KITE EN EIPHNH; & in un monumento, rimaneva ancora intiero in lettere rosse questo nome ACAMPIKII. Non è da meravigliarsi, che gli Hebrei usassero di far i loro Epitaffi in lingua Greca, e non nell’Hebrea…”.

“… Tornando hora alla descrittione del Cimiterio. Questo è fatto molto alla rustica, e rozzamente non havendo altro, che due soli Cubicoli, e quelli ancora molto piccioli, & ignobili, com’è tutto il Cimiterio; nel quale non si vede ne pure un frammento di marmo, ne pittura, ne segno alcuni di Christianità; solo (quasi per ogni sepoltura) si vede dipinto di color rosso, ò impresso nella calce, il Candelabro delle sette lucerne: usanza peculiare de’ Giudei, che perseverò fin à tempi nostri; come ne facevano testimonianza li Titoli, levati dal moderno Cimiterio loro per ordine della sacra Riforma; in molti de’ quali era scolpito il Candelabro, in tal modo. Ritrovammo ancora quivi molte lucerne di terra cotta, rustiche, e rozze, e quasi tutte rotte: una solamente intiera, nella quale era impresso il sudetto Candelabro, la quale habbiamo appresso di noi, & è della forma come qui di sopra si vede. E dentro una sepoltura trovammo una medaglia di metallo, talmente corrosa dall’antichità, che non fù possibile poterne comprendere cosa alcuna. Dal non ritrovarsi dunque in questo Cimiterio segno alcuno di Christianità dall’hauer letto in un frámento che si trovò d’vn’Iscrittione, questa parola concisa, CYNAGOG, e dalle altre cose sopradette habbiamo giudicato, e crediamo fermamente, che questo fosse il proprio Cimiterio de gli antichi Hebrei”.

In località Colle Rosato, i visitatori si calarono da una stretta apertura, e si ritrovarono in un’area cimiteriale di dimensioni moderate con diverse tipologie sepolcrali, loculi nelle pareti e formae scavate nel pavimento. Le tombe dovevano essere chiuse da lastre di terracotta imbiancate sulle quali spesso il Bosio riconobbe la scritta EIPHNH dipinta di rosso con lettere greche. Il tutto appariva già devastato dai predatori, con le lastre di chiusura delle tombe rotte da chi voleva cercare qualcosa al suo interno.

Il Bosio vide su di un loculo una Menorah dipinta e su un altro loculo un altro candelabro graffito, e ritrovò alcuni reperti come un’iscrizione che richiamava una sinagoga e una lucerna con il candelabro, e capì di essere entrato in una catacomba ebraica. Il Bosio però contraddice in parte le proprie affermazioni perché dopo aver descritto le due immagini della Menorah dipinta e graffita sui loculi, e dopo aver ritrovato il marmo con l’iscrizione che ricordava una sinagoga, egli afferma “non si vede un frammento di marmo, né di pittura”.

Narra il Bosio “una cosa differente dagli altri cimiteri e che per il più li suddetti monumenti non son rinchiusi con tegola e marmi ma con muroni intonacati di calce, nelle quali quasi sempre con lettere rozze essere stati scritti gli epitaffi alcuni de quali essendo scolpite anche nella calce”.

La spedizione durata due ore circa, permise ai visitatori di ritrovare alcuni frammenti di iscrizioni sepolcrali e lucerne recanti il simbolo della Menorah, e dentro un loculo un “medaglione” molto rovinato.

Dai disegni del Bosio. integrati dalle fotografie del ritrovamento della stessa parete loculo con Menorah dipinta, si riconoscono chiaramente alcuni elementi:

  1. a) i tre loculi sovrapposti sopra ai quali è dipinta la Menorah, occupano la parete di fondo di una galleria;
  2. b) i loculi sono di dimensioni minori rispetto a quelli della parete perpendicolare, per cui dovevano essere sepolture per bambini;
  3. c) il loculo sottostante che conserva ancora una tegola di chiusura, è più piccolo degli altri due;
  4. d) al di sotto dei tre loculi disegnati, si vedono gli inviti di almeno altre due file di loculi giustapposti, per cui la Menorah era dipinta nello spazio soprastante tutti i loculi sovrapposti, che dovevano essere cinque e forse più.

Mentre in Bosio le dimensioni sono reali, nelle opere del Vasi e del Bianchini la prospettiva è falsata per cui i loculi sembrano di dimensioni maggiori.

Il Bosio, nella sua opera, ricorda anche due iscrizioni funerarie giudaiche riutilizzate in due chiese di Trastevere.

La prima, la vide nella Chiesa di S. Cecilia “In Sancta Caecilia, nella Roma di Trastevere, nel pavimento … che sta a mano destra nell’entrar della chiesa, avanti per la porta dell’oratorio, e bagno di detta santa, vi è questo altare … (e un’iscrizione) greca con il medesimo segno del candelabro”.

La seconda era nella Chiesa di in St. Salvatore de Curtis “Nella suddetta Chiesa di San Salvatore in Curte in Trastevere un frammento (di marmo) nel quale rimaneva il segno del candelabro in questa guisa”.

Il Bosio erediterà le copie di alcune pitture cimiteriali riprodotte dal fiammingo Philips van Winghe, e pubblicate nella sua opera, e il Bosio in relazione alla descrizione del van Winghe afferma “Si ritrovarono in questo Cimiterio sette Monumenti arcuati; le cui pitture furono all’hora copiate da Filippo Vinghio Fiammengo, e dal Ciaccone ancora, da’ quali noi l’habbiamo havute”.

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G. Vasi illustrazione da G. Bianchini, Delle Magnificenze di Roma Antica e Moderna 1: Delle Porte e Mura di Roma con Illustrazioni, Roma, 1747, p. 57 (Houghton Library, Harvard University)

Giovanni Angelo Santini, l’illustratore dell’opera del Bosio, che probabilmente aveva visitato il sito prima degli altri informandoli poi i compagni dell’esistenza in zona di alcune cavità sotterranee, riprodusse il disegno di una Menorah dipinta di rosso collocata al di sopra di un loculo scavato nel muro di fondo di una galleria, chiuso con lastre di terracotta imbiancate dove a fianco dell’apertura del loculo si riconoscono due lettere in lingua greca “E” e “K” verosimilmente anch’esse dipinte di rosso. Il loculo occupava la posizione più alta rispetto ad altri due inferiori. Il Santini appose la sua firma come “Toccafondo” su una tegola di chiusura di un loculo della catacomba ebraica di Monteverde, rinvenuta da Nicholaus Muller durante gli scavi del 1904-1906.

Zaratino Castellini, uno dei tre visitatori del 1602, sulla sua copia personale dell’opera dello Smetio, annotava a margine alcune notizie molto importanti e non riportate dal Bosio, e cioè che la catacomba “era iuxta vineam de Panillis … uno ab Urbe lapide in colle rosato … (cimitero) vastum in quo sepulti sunt solum Hebraei Graeci”.

Il Castellini ricorda di aver veduto tracce di iscrizioni dipinte in rosso sulle tegole imbiancate, tutte in cattivo stato di conservazione, le due immagini della Menorah dipinta e incisa nella calce, la parola CYNAGOG su un’iscrizione in lingua greca su una lastra di marmo conservata poi da Antonio Bosio.

Già nel secolo XII, l’ebreo spagnolo Beniamino di Tudela, visitando Roma, nel suo Itinerario descriveva un luogo che con ogni probabilità corrispondeva alla catacomba ebraica di Monteverde. Queste le sue parole “in un’altra caverna, in una collina sulla riva del Tevere, sono sepolti i dieci pii messi a morte dall’autorità”.

Nel 1651, Paolo Aringhi nella sua edizione in latino della “Roma sotteranea” del Bosio, descrive la catacomba di Monteverde forse senza averla visitata.

Il Buonarrotti nella sua opera sui vetri ricorda “Come abbiamo accennato di sopra, essendo questi frammenti serviti a’primi Cristiani per solo contrassegno de’ sepolcri, per li quali si servivano anche di cose propri de’ Gentili, non è maraviglia che vi abbiano posto anche questo, fatto e servito quando era intero per uso di qualcheduno, che fosse Ebreo di nazione, conforme si ricava da’ tanti simboli in esso, uniti spettanti senza alcun fallo all’Ebraismo”.

Marcantonio Boldetti, nella sua opera sui “Cimiterij di Roma” del 1720, ricorda di sfuggita la catacomba di Monteverde, pubblicando la tavola di una lucerna con simboli ebraici.

Il Venuti nel 1748 pubblica due iscrizioni che dice di aver ritrovato nel mese di maggio nella “crypta o catacomba” di Monteverde, queste le sue parole “Vedendosi in alcune grotte fu lasciato il corpo all’uso orientale, situati presso all’atrio, ed in altre il terreno cavato con i suoi loculi l’uno superiormente all’altro, come nel nostro sepolcro o coemeterio”.

Negli anni 1770 e 1780, Gaetano Migliore fornisce una nuova descrizione della catacomba riconoscendone lo stato rovinoso dovuto alle frane. Il Raponi pubblica 14 iscrizioni “repertum Romae extra Portam Portuensem anno 1748 in loco qui dicatur Monteverde”. Girolamo Amati completò “un lavoro, una trascrizione, fatta per (Gaetano Marini) di quanto fra i manoscritti di Gaetano Migliore aveva relazione all’opera per esso incominciata sugli epitaffi greci degli ebrei dei tempi imperiali… i quali epitaffi erano stati discoperti in un luogo presso la via Portuense particolarmente addetto alla seppoltura di tal gente”.

Padre Giuseppe Marchi testimonia che “era gran tempo ch’io avevo interrogato i viventi nostri cavatori de’ cimiteri e fatto interrogare i padroni tutti e coltivatori delle vigne che sono sulla falda dal Bosio descritta, se mi sapevano dar conto di qualche bocca che mettesse in quelle spelonche: ma niuno mai aveva saputo danni risposta che m’appagasse. Aspettai quindi il gennajo di questo 1843, quando terminata colà la potatura delle viti, il terreno si rimane ignudo per modo, che di se non può nascondere né una piega sola. In tre diversi giorni, avendo a compagni l’ingegnere Temistocle Marucchi, l’architetto Francesco Fontana e qualche altro di que’ molti che sogliono esser meco in cotali esplorazioni, esplorai palmo a palmo tutta la collina, senza potermi imbatter mai nella bocca ch’era l’oggetto unico di mie ricerche” concludendo che “gli accessi al giudaico cimitero di Monte Verde si sono interamente sottratti all’occhio e al piede del ricercatore”.

Giovanni Battista de Rossi riferisce di aver visto nella collezione del Bosio “Tabellam marmoream, quae nunc extat apud D. Antonium Bosium”, ovvero la lastra con iscrizione ritrovata nella catacomba di Monteverde. Alcuni anni dopo, Michele Stefano de Rossi scriveva “Sul Monte Verde era il cemetero degli Ebrei trovato dal Bosio, ed ora per i naturali cambiamenti del colle al tutto scomparso” confermando il crollo della catacomba. Nel 1879, Mariano Armellini accompagnando suo padre Tito nelle perlustrazioni, riconobbe “in località Pozzo Pantaleo che divideva la Vigna di S, Michele dalla Vigna delle Missioni, dove erano imbocchi delle cave di tufo”. Il Tomassetti fa derivare il toponimo “Colle Rosato” o “Rosaro” dalle rosationes che si facevano presso gli antichi cimiteri. Rodolfo Lanciani riporta una notizia del 1520 che narra che in quegli anni erano state riaperte le antiche cave di tufo “extra Portam Portuensem in loco dicto Rosaro”, e secondo lui il nome “Rosaro” derivava dalla Cappella della Madonna del Rosario in “Pozzo Pantaleone”.

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Catacomba ebraica di Monteverde: resti di gallerie con loculi (scavi del XX secolo)

La catacomba di Monteverde era il più antico cimitero degli Ebrei romani e si estendeva al di sopra delle latomie delle grandi cave del famoso tufo di Montevede, che sorgevano ad un chilometro e mezzo circa dalla Porta Portuense, occupando la parte bassa della collina del Monteverde. Sul finire del mese di ottobre dell’anno 1904 la Commissione di Sacra Archeologia fu avvisata del rinvenimento di alcune gallerie ipogee nell’area della vigna di proprietà dei marchesi Pellegrini Quarantotto, situata circa un chilometro e mezzo fuori Porta Portese, vicino all’attuale stazione di Trastevere e più precisamente tra il cimitero di Ponziano e quest’ultima. L’indagine archeologica, subito mostratasi complessa per la friabilità eccessiva del materiale tufaceo in cui le gallerie erano state scavate, fu affidata a  Nikolaus Muller che, da circa un ventennio, si occupava approfonditamente delle antichità giudaiche di Roma. Gli scavi iniziarono alla fine del mese di novembre del 1904 e proseguirono nel 1905 e nel 1906. I risultati portarono a capire che oltre l’area visitata e descritta dal Bosio, vi erano altre regioni mai esplorate prima.

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Catacomba ebraica di Monteverde: loculo con Menorah dipinta già descritto dal Bosio (scavi del XX secolo)

Il Muller riconobbe l’accesso originario alla catacomba, che era un ampio vestibolo e sei gradini che portavano alla prima galleria ipogea. L’atrio era largo più di 2 metri, con pareti e volta a tutto sesto con paramento in laterizio, dove con una scalinata di sei gradini, larga ben 3 metri, si scendeva in catacomba. Il Muller era del parere che quella scalinata fosse stata realizzata in un momento successivo, perché fra i mattoni del rivestimento era stato fatto abbondante uso di calce. Il Muller ritrovò sul muro di chiusura di un loculo la firma, tracciata a carboncino, del pittore romano Giovanni Angelo Santini, detto il Toccafondo, copista personale del Bosio che, non aveva partecipato all’esplorazione del dicembre dell’anno 1602, ma evidentemente aveva visitato per primo quelle gallerie. Il Muller documentò le tipologie funerarie, quattro cubicoli, e loculi contraddistinti da ricchi corredi applicati esternamente alle chiusure. Sulla base dei nuovi scavi, che documentavano una catacomba molto più vasta, il Muller fece una planimetria delle gallerie.

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Muller, “Il cimitero degli ebrei posto sulla via Portuense,” in Rendiconti della Pontificia Accademia Romana di Archeologia 2.12 (1915)

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Catacomba ebraica di Monteverde: resti di gallerie con loculi, e ingresso ad un cubicolo (scavi del XX secolo)

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Catacomba ebraica di Monteverde: resti di gallerie con loculi alle pareti con iscrizioni dipinte e formae sovrapposte aggiunte successivamente che nascondevano le sepolture precedenti (scavi del XX secolo)

Gli scavi del Muller hanno permesso di recuperare ben 201 iscrizioni, delle quali 166 in lingua greca e 35 in lingua latina.

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Catacomba ebraica di Monteverde: loculo ritrovato intatto con iscrizione greca dipinta HTADE XEITE …CON … (scavi del XX secolo)

Presso l’Archivio Centrale dello Stato nel fondo Ministero della Pubblica Istruzione, Direzione Generale Antichità e Belle Arti si conserva materiale molto interessante, datato dal 1898 al 1919, sulla catacomba ebraica di Monteverde.

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ACS, Ministero della Pubblica Istruzione. Direzione Generale Antichità e Belle Arti, III versamento, II parte (1898–1907), busta 56, fascicolo 120, sf. 10 (pianta): “Roma: catacombe di Monteverde”.

– 1904: le catacombe “non possono facilmente esplorarsi perché in varie parti sono franate ed in altre parti mal sorrette dai piloni che gli agenti atmosferici facilmente scomporrano… La Commissione di Archeologia Cristiana sta facendo studi e rilievi sulla località”. In una seconda lettera del 7 dicembre 1904, Guglielmo Gatti “Mi è  noto con grande competenza ed interesse la CDAS medesima si occupa della conservazione degli antichi cimiteri cristiani del Suburbio. Sono certo che anche nelle odierne casuali scoperte essa porrà ogni cura, affinché, ove sia possible, quel tratto di catacomba venga nel migliore modo tutelato da ulteriori rovina” ( ACS, Min. Pub. Istr. Dir. Gen. AA. BB. AA., vers. 2, pt. 2a, b. 17, fasc. 142).

– “Roma, 1904, Catacombe nella località Monteverde” (G. Fiorelli, 12 dicembre 1904): “Urgente. Ringrazio la S. V. per le notizie datemi intorno alla scoperta di un tratto di catacombe, avvenuta a Monteverde nella proprietà del Marchese Pellegrini. Ne ho scritto in proposito alla CDAS raccomendando, ove sia possible, la conservazione di quell’ipogeo. Intanto vorrà cotesto ufficio riferirmi se ed in qual modo la CDAS medesima provede i necessari lavori.

Il 15 aprile del 1907, la Pontificia Commissione d’intesa con il Ministero della Istruzione Pubblica prega i signori eredi del marchese Benedetto Pellegrini di voler permettere al sig. Prof. Nicola Muller della Università di Berlino di completare nell’interessa della scienza i rilievi e gli studi sulle catacombe giudaiche esistenti nella vigna di loro proprietà in contrada Monteverde presso la Stazione di Trastevere” (ACS, Min. Pub. Istr. Dir. Gen. AA. BB. AA., v. 2a, pt 2a, b. 17).

– lettera 3 gennaio 1910: di Giovanni Pellegrini Quarantotti al Ministero della Pubblica Istruzione (ACS, Min. Pub. Istr. Dir. Gen. AA. BB. AA., v. 4, div. 1, (1908–1912) b. 9, fasc. 88).

– lettera 22 novembre 1906, di Giovanni Pellegrini Quarantotti al Cardinale Pietro Respighi, Presidente della Pontificia Commissione “Il Sig. Marchese Benedetto Pellegrini-Quarantotti concesse già alla Commissione di Archeologia Sacra la facoltà richiestagli di eseguire delle esplorazioni nelle catacombe ebraiche esistenti sotto una vigna di sua proprietà fuori la Porta Portese, in contrada Monte Verde. Ora gli eredi sono informati che per effetto dei lavori relativi, si verificano nel fondo frane ed avvallamenti che constituiscono gravi pericoli de operaj che per conto dell’affituario coltivano il fondo soprastante e con manifesto danno della proprietà e delle sue coltivazioni. E mi hanno inviato a rappresentare tale stato di cose all’Eminenza Vostra, certo che ciò basti perché siano predi pronti ed efficaci provvedimenti, che valgano a scongiurare pericoli e danni, e le conseguente responsibilità sia di fronte alle Autorità sia di fronte ai terzi” (Atti CDAS, 28 (1906–1907).

– lettera 16 febbraio 1909: “Nella vigna di Monteverde presso la via Portuense appartenenti ai Marchesi Pellegrini Quarantotti, venne in luce casualmente alcuni anni or sono la catacomba giudaica già visitata da Bosio alla fine del sec. XVI. Nell’ anno ora in corso (1909) il Prof. Muller della Università di Berlino chiese il permesso di completare esplorazioni e rilievi in quel cimitero per scopo scientifico. Ora, ripartito il Muller, dopo aver condotto a termine i suoi studi, i properietari della vigna insistono in una domanda già prima da essi presentata per ottenere la licenza di demolire la catacomba per gravi pericoli che essa presenta. Il prof. Muller a questo proposito già aveva espresso il parere che, mentre la parte più recente dell’ipogeo può essere conservata, la parte più antica è da demolire… Data però la insistenza dei proprietari, i quali d’accordo col Prof. Muller, affermando la esistenza della necropoli constituisce per essi un grave pericolo prego la S. V. di recarsi nel posto ed esaminare accuratemente le condizioni statiche del monumento e referirsi tosto al Ministero se sia veramente il caso di concedere il permesso che esso venga demolita in tutto o in parte” (ACS, Min. Pub. Istr. Dir. Gen. AA. BB. AA., vers. 4, div. 1, (1908–1912) b. 9).

– lettera 21 febbraio 1909: di N. Muller al Ministero della Pubblica Istruzione: “Il cimitero giudaico si compone di due parti, una più antica ed importante per le forme architettoniche diverse affatto da quelle già conservate nella Roma Sotteranea, con un’altra più recente di forma quasi idonea a quella delle catacombe cristiane. Disgraziatamente però la parte più antica non si può in alcun modo conservare essendosi poi trovato al di sotto una vasta ed antica cava di pietre che è divisa della sovrastante catacomba da un piccolo spessore. E posto ciò facilmente si comprende che se non si eseguissero ivi dei lavori di consolidamento assai costosi, e che i proprietari non intendono naturalmente di fare, e che non possono sperarsi da private persone, veramente l’esistenza di quel rovinoso cimitero sarebbe di una continuata pericolo ed anche assai grave per i proprietari. Lo scrivente esprimere il parere che questo possa, anzi debba demolirsi. Quanto poi all’altra di minore antichità ed importanza, il sottoscritto è di opinione che essa dovrebbe almeno in parte conservarsi, affinché resti sul luogo una memoria di questo antichissimo cimitero giudaico della via Portuense, che nella sua parte più antica, servì di sepolcreto alla primitiva popolazione israelitica in Roma fino degli ultimi tempi della repubblica romana. Il sottoscritto adjunque, esposto tutto ciò, prega cordialmente al E. V. onde voglia concedere il domandato permesso di scava ai Sig. March. Pellegrini-Quarantotti accordando loro la facoltà da loro desiderato. E prega che tale permesso sia concesso con la massima sollecitudine, essendo obbigato di ritornare tra breve al suo insegnamento alla università di Berlino” (ACS, Min. Pub. Istr. Dir. Gen. AA. BB. AA., vers. 4, div. 1, (1908–1912) b. 9, fasc. 180).

– lettera 22 febbraio 1909: contrassegnata come “Urgentissima” da C. Ricci a O. Marucchi: “Dalla nuova lettera del Prof. N. Muller della Università di Berlino, la S. V. apprendersi come egli desiderando proseguire con i suoi studi sui cimiteri giudaici, ha necessità di eseguire esplorazione e rilievi nel cimitero giudaico di via Portuense. I proprietari del luogo i sig. march. Pellegrini Quarnatotti non consentono alla esecuzione delle desiderate esplorazioni se non a condizioni che dopo eseguite le recherche, la catacomba venga demolita per per i gravi pericoli che essa presenta. Il prof. N. Muller però mentre conviene nella necessità di demolire la parte più antica di quel cimitero, sarebbe d’avviso che una parte più recente dell’ipogeo fosse conservata. Questo Ministero, desiderando avere su tale questione l’avviso di persone competenti. prega la S. V. di sottomettere la questione stessa all’esame ed a parere della CDAS, e quindi riferirmene con la restituzione di una lettera” (ACS, Min. Pub. Istr. Dir. Gen. AA. BB. AA., vers. 4, div. 1, (1908–1912) b. 9).

– lettera del 4 marzo 1909 di R. Kanzler a C. Ricci “Il prof. Marucchi mi ha rimessa la lettera e gli allegati della S. V. Ill.ma. a lui inviati riguardanti la progettata demolizione del Cimitero Giudaico a Monteverde. E sono in grado di trasmettere il parere espresso della nostra commissione adjuntasi alla scopo il giorno 1 marzo 1909. La catacomba giudaica già veduta dal Bosio nella fine del sec. XVI, le cui tracce erano poi scomparse e rimaste nascoste ai numerosi investigatori, tornò in luce casualmente alcuni anni o sono in seguito di alcune frane verificatisi nella vigna dei Marchesi Pellegrini Quarantotti a causa delle mine esplose in una cava sottostante degli stessi proprietari concessa in appalto. I proprietari non diedero denuncia alcuna dello scoprimento, e solo la guardia del Ministero, Brizzarelli, poté a stento penetrare nella vigna ed informare codesta Direzione Generale e la nostra Commissione. Le mine e lo sterro della cava hanno posto la parte più antica di quel cimitero in condizioni di non poter esser più sostituita e conservata. La nostra Commissione pertanto mi ha incaricato significare a codesta Direzione Generale delle Antichità e le Belle Arti che essa non intende assumere responsibilità alcuna sulla proposta demolizione, sembrando ai commissari che concedere ufficialmente la destruzione di un monumento, anche ridotto in cattivo stato, ripugni assolutamente ad un Istituto eretto per la conservazione delle Antichità. Colgo l’occasione per professarle i sensi della più alta stima e considerazione” (Atti CDAS, 30, 1908–1909).

– lettera 16 marzo 1909 del Ministro C. Ricci a N. Muller: “La S. V. desiderando proseguire con i suoi studi sul cimitero giudaico ed avendo quindi necessità di eseguire esplorazione e rilievi del cimitero giudaico sulla via Portuense, mi ha informato che i proprietari del luogo non consentono alla desiderate esplorazioni se non a patto che, compiute le ricerche, quella catacomba venga demolita per gravi pericoli che essa presenta. Ai proprietari però dev’essere noto che a forma dell’articolo 11 della vigente legge del 12 giugno 1902 n. 185 per la conservazione dei monumenti e dell’articolo 129 del relativo regolarmento 17 luglio del 1904 è  vietato demolire o atterar gli avanzi ai monumenti esistenti nel loro fondo… Essi debbono chiedere ufficialmente il permesso con domanda motivato alla Soprindentenza dei Monumenti, la quale poi, udito il parere della Commissione Regionale, dovrà riferire a questo Ministero per le opportune deliberazione. Da ciò la S. V. comprende come non si possa permettere alcuna demolizione del monumento di cui si tratta, senza le prescritte cautele e formalità volute della legge in vigore” (ACS, Min. Pub. Istr. Dir. Gen. AA. BB. AA., vers. 4, div. 1, (1908–1912) b. 9).

– lettera 21 novembre 1909: “per un possibile accordo con la Communità Israelitica di Roma”. Altra lettera del 31 gennaio 1910 per “interessare la Communità Israelitica di Roma a concorrere moralmente e materialmente nelle esplorazioni sistematiche e rigorosamente scientifiche di quell’importante cimitero” (ACS, Min. Pub. Istr. Dir. Gen. AA. BB. AA., vers. 4, div. 1 (1908–1912), b. 9).

– lettera 3 gennaio 1910 (ACS, Min. Pub. Istr. Dir. Gen. AA. BB. AA., vers. 4, div. 1, (1908–1912) b. 9).

– lettera 15 febbraio 1910: di C. Ricci al Direttore degli Scavi di Roma (ACS, Min. Pub. Istr. Dir. Gen. AA. BB. AA., vers. 4, div. 1, (1908–1912) b. 9).

– lettera 6 maggio 1910, contrassegnata come “Urgente” “I danni che oggi si sono verificati nel terreno minato in numerevoli cave di pietra, contenenti in superficie il cimitero giudaico sulla destra della via Portuense, furono previste da me e del sig. ing. Marchetti, quando furono inviati dal E.V. con una lettera del 24 gennaio, 1910 (il 622) di referire sullo stato di conservazione e sul possible provvedimento da adottare per l’esplorazione del cimitero suddetto. La relazione presentata da me il 16 febbraio 1910 dimostrava chiaramente che sarebbe stato superiore a forze umane di impedire la graduale rovina della catacomba fin allora rilevato ad un ammasso informe e solo conservate in qualche margine per pochi metri di corsie, che erano già state esplorate dal Prof. Muller anni in dietro. La catacomba giudaica così distrutta da tanto tempo oggi non offre campo ad esplorazione” (ACS, Min. Pub. Istr. Dir. Gen. AA. BB. AA., vers. 4, div. 1, (1908–1912) b. 9).

– lettera 8 giugno 1910: del Direttore degli Scavi al Soprintendente dei Monumenti di Roma B. Marchetti: “Si sono recati il mattino del 4 febbraio nella località Monteverde, sulla destra della via Portuense, nella proprietà del Marchese Pellegrini Quarantotti allo scopo di esaminare lo stato della catacomba giudaica rimasta scoperta da frane smisurate di una sottostante cava di pietra e per studiare possibilmente i mezzi di riparare le frane avvenute e di impedire ulteriori rovine per poter esplorare completemente ogni restante della detta catacomba. Un esame dettagliato, sia dell’ aspetto esteriore dell’intera collina, si dei profondi cavi artificiali e delle frani antiche e recenti dimostre all’evidenza che la grande altura, dai tempi romani ad oggi, fu traforata per ogni verso da latomie altissime e pericolosissime, per l’audacità con cui furono aperte e per la poca resistenza nei piloni di sostegno le gallerie delle cave del piano della via Portuense pernetrarono la collina, giungendo fino quasi alla superficie, ciò fino allo strato di tufo incoerente (cappellaccio) per cui venne a mancare alla gallerie stessa il contrasto del materiale solido e resistente, che doveva costruire la volta. Da ciò un seguito di frane incommensurabile e una commozione generale dell’altura, che ormai si rende pericolosa in tutti i punti, perché  frana di continuo, come abbiamo potuto constatare de visu. Nessuna opera sarà possible ad arrestare, in qualche parte, lo sprofondamento dell’altura. Le suddette frane, le quali danno alla collina l’aspetto di un cratere senza volto, mostrano nelle frattura gli avanzi delle corsie di una catacomba giudaica, le non si fossero manifestate quella frane non sarebbe stata scoperte questa catacomba, ed infatti non si è potuto fare nessuna esplorazione di essa, se non dopo lo sprofondimento di una zona di terreno, e ricercarla o meglio cercare le testimonianze, frugando frammezzo il terreno sconvolto. Questo fu l’opera del Prof. Muller, che però in molti luoghi doveva arrestarsi per evitare gravi pericoli e anche per le difficoltà dell’immenso terrapieno da rimuovere. Esaminando, palmo a palmo, il terreno, scendendo tra le frane non ancora arrestate e recentissime abbiamo potuto convincersi che la catacomba giudaica oggi trovasi interamente sprofondata colle frane e che soltanto il fondo di un corridoi resta visibile in alto tagliata da una frana recente. Soltanto in parte rimangono i brevissimi tratti di corsie esplorate dal perlodato Prof. Muller, ma continuamente in balia delle frane, in modo che non resta possibilità alcuna d’impedirne la scomparsa. In una parola (e in questo dissentiamo parere del Sig Prof. Muller) il cimitero giudaico della Vigna Pellegrini-Quarantotti non era molto esteso e occupava soltanto il lembo meridionale della collina, oggi in parte asportato, e per ogni rimanente sconvolto dalle frane delle enormi cave di pietra. Più verso l’alto della collina, dove il terreno non sembra minato da antiche cave, la frattura delle frane non ha nessun indizio di corsie. Sarebbe quindi inutile, se non impossibile, ogni opera di protezione per salvare quel poco che vedesi travolto e sezionato delle frane stesse, e sarebbe inutile ogni opera di ricerca di nuove corsie. Potrebbe forse con grave dispendio e pericolo ma con scarso risultato tenersi dietro a parziali indagini mano a mano che si determinano le frane, nel modo stesso che tentò il predetto Prof. Muller. Secondo quanto abbiamo dichiarato ci sembra inopportuno di imporre il veto di ricerche, od intimare la conservazione del monumento ai Sig. Pellegrini Quarantotti secondo il deliberato della prima sessione del Consiglio Superiore e poiché  dove essi cavavano non appariscono i segni del cimitero, e dove il territorio è  soggetto ad inevitabili sprofondamenti” (ACS, Min. Pub. Istr. Dir. Gen. AA. BB. AA., vers. 4, div. 1, (1908–1912) b. 9).

– lettera 9 giugno 1910 agli Eredi del Marchese Benedetto Pellegrini Quarantotti: “Lo scioglimento del vincolo non significava aiutare di più l’opera demolitrice delle cave sottostanti alle catacombe stesse … in caso di rinvenimento di oggetti e di antiche epigrafi, le quali si potrebbe trovare per le terre franate” (ACS, Min. Pub. Istr. Dir. Gen. AA. BB. AA., vers. 4, div. 1, (1908–1912) b. 9).

– lettera 1 agosto 1910: a N. Muller “Il Consiglio Superiore per le Antichità e le Belle Arti propone di affidare all’Ufficio Scavi di Roma l’incarico di preparare un progetto per la esplorazione delle catacombe e per la conservazione sin dove è  ossibile di quell’insigne monumento. Il Ministero fece certo cessare il pericoloso lavoro di escavazione nelle prossime cave di tufo ed affidò all’Ufficio per gli Scavi l’incarico della preparazione dell’accennato progetto. Ma l’Ufficio stesso dovette tosto riconoscere che lo stato del cimitero più non permetteva di pensare provvedimenti per la sua conservazione e nemmeno ad una sistematica ricerca. Si fece quindi soltanto alcune fotografie dei pochi avanzi delle corsie che ancora rimanevano. Nel maggio nel corso, poi, in seguito ad una frana rovinò anche le parte del cimitero che era tuttora visibile e oggi può dirsi purtroppo che nulla resta più di quell’importante monumento” (ACS, Min. Pub. Istr. Dir. Gen. AA. BB. AA., vers. 4, div. 1, (1908–1912) b. 9).

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Catacomba ebraica di Monteverde: resti di galleria con loculi, visibile dopo una frana del 1920 circa

Altri ipogei vennero alla luce fra il 1913 e il 1919.

Negli ultimi mesi del 1913, nella stessa area ma in proprietà Rey, tornarono casualmente alla luce poche gallerie appartenenti ad una nuova regione mai indagata del cimitero giudaico. La Commissione di Sacra Archeologia, in accordo con la Sovraintendenza ai monumenti, riconosciute le critiche condizioni critiche della zona scoperta e vista l’impossibilità di poter conservare il monumento per l’alto rischio di crolli, decise, sotto la supervisione degli Ispettori Enrico Josi e Giorgio Schneider Graziosi, di spogliare le gallerie di tutta la suppellettile archeologica. Dopo altri crolli quello che restava del cimitero giudaico andò completamente perduto in una frana rovinosa.

Il 4 giugno 1914 le nuove catacombe scoperte in proprietà Rey vengono descritte come “in condizioni peggiori di quelle di vigna Pellegrini-Quarantotti. L’ingegnere impone l’abbandono dopo aver portato al Museo Lateranense quanto è possibile asportare”. Ed è evidentemente in questa occasione, che il giornalista visitò la zona e parlò con i bambini “dell’oste grosso grosso”.

Nel 1919, anche l’utilizzo di mine esplosive per l’estrazione del materiale lapideo fu certamente devastante per la fragilità delle gallerie in cui erano state scavate le catacombe, infatti Roberto Paribeni riferisce “Lavori di mine per l ‘estrazione di tufo litoide han fatto crollare altri tratti di galleria del noto cimitero giudaico di Monteverde, che per le disperate loro condizioni di sicurezza non fu possibile salvare negli anni delle maggiori scoperte, e di cui non rimane ora che il breve tratto di galleria inaccessibile rappresentato nella nostra fotografia”. Il Paribeni fece trasportare il materiale rinvenuto nello scavo al Museo Nazionale Romano.

Una relazione ufficiale, redatta al fine di documentare la realizzazione di un piano di sviluppo edilizio destinato alla costruzione di case popolari, testimonia che il 14 ottobre del 1928 le frane provocarono un crollo devastante.

Secondo Gioacchino de Angelis d’Ossat, le cause che concorsero a tale crollo, oltre alla cattiva qualità naturale del suolo, vanno ricercate sia nella poca compattezza dello strato geologico nel quale erano scavate le gallerie, un banco di tufo vulcanico rossiccio semilitoide, che nella indiscriminata asportazione del celebre tufo di Monteverde e nello spianamento continuo del terreno.

  1. De Angelis d’Ossat, nella sua opera “La catacomba ebraica a Monte Verde” scrive “Sarebbe oltremodo desiderabile che le Autorità competenti fossero vivamente interessate dalla Commissione Pontificia preposta alle Catacombe, dall’Istituto ed Accademia di Archeologia Sacra e dall’alta gerarchia religiosa israelitica, affinché sia almeno conservato, quale testimonio dell’importante documento storico religioso, l’ultimo relitto, per quanto devastato, pur sicuramente riconoscibile. Le condizioni geo-idrologiche del cimitero ebraico, pur non ottime rispetto alla statica, erano però migliori di tante altre catacombe cristiane che tuttora possiamo visitare. La devastazione devesi senza altro attribuire all’uomo che scavò irrazionalmente le latomie in seno al sottostante tufo da costruzione, anche ammesso il concorso dell’esistente cimitero. All’uomo però devonsi concedere le attenuanti dell’ignoranza della presenza della catacomba e della necessità quasi assoluta di procurarsi il materiale da costruzione e di allargare la cerchia cittadina”.

Nel 1928, durante la costruzione della Chiesa Regina Pacis al di sopra della ferrovia Roma-Viterbo furono rinvenute aree ipogee con loculi chiusi con tegole, probabilmente “giudaiche”.

Come dicevano all’inizio … dopo la morte del Bramante nel 1514, Papa Leone X nominò Raffaello magister operis di S. Pietro e poi praefectus marmorum et lapidum omnium, carica che non gli conferiva poteri di vigilanza e tutela ma soltanto la precedenza su tutti gli altri cercatori ufficiali e abusivi intenti a spogliare la città. Dal saccheggio erano escluse le epigrafi, perché era proibito a cavatori e scalpellini di segare e di distruggere i marmi con iscrizioni sine iussu aut permissu, ma questo divieto non fu un deterrente.

Anche le catacombe che costellavano le vie extraurbane furono fonte inesauribile di materiale per i marmorari, gli antiquari e i predatori dell’epoca.

Negli ultimi decenni del XVI secolo, il maestro fiorentino Bartolomeo Bassi che era scalpellino e lavorò come Capo Mastro alla Fabbrica Capitolina, aveva una bottega vicino a S. Marco, nei pressi di Piazza Venezia, e fu attivo a Roma dal 1570 al 1619.

Tra i permessi rilasciati ai marmorari dell’epoca si registrano anche alcuni conti relativi a Mastro Bartolomeo che trasportò, tra l’altro, una volta trecento, un’altra volta seicento, e poi ancora trecento “carrettate di marmi”, da usare per le costruzioni cittadine.

Nella moltitudine di marmi che Mastro Bartolomeo aveva nella sua officina, Il fiammingo Philips van Winghein vide un sarcofago marmoreo con iscrizione latina che descrive così:

In aedibus Bartholomei Bassi marmorarii apud S. Marci 1592. Sarcoph.

BETURIA PAUCLA F DOMI HETERNAE QUOSTITUTA

QUAE BIXIT AN LXXXVI MESES VI

PROSELITA AN XVI NOMINAE SARA

MATER SYNAGOGARUM CAMPI ET BOLUMNI

EN IRENAE AYCYMISIS AYTIS

L’iscrizione funeraria apparteneva ad una donna di nome Beturia Paula, che visse anni 86 e mesi 6 e fu proselita del giudaismo per 16 anni con il nome di Sara, ricoprendo l’importante carica di Mater synagogae di ben due sinagoghe, quella dei Campenses e quella dei Volumnenses.

… Anche la proselita che interrogò i quattro Rabbi a Roma in età domizianea, aveva il nome Beluria o Bluria, e crediamo fermamente che la Beturia che incontrò i rabbini sia la stessa Beturia ricordata nell’iscrizione incisa sul sarcofago che giaceva nella bottega di Mastro Bartolomeo. Erano entrambe due donne molto importanti e la Beturia del sarcofago, da proselita ricoprì l’importante carica di Mater synagogae di ben due sinagoghe.

silvia 12
Catacomba di Monteverde: iscrizione di ILAROS Arconte della sinagoga dei Volumnenses (Museo Nazionale Romano)

Anche l’iscrizione di ILAROS arconte della sinagoga dei Volumnenses come Beturia, proviene dalla catacomba di Monteverde.

Proviene dalla catacomba di Monteverde anche il famoso sarcofago con Stagioni che sorreggono un clipeo centrale che circonda una Menorah, ora al Museo Nazionale Romano. Durante i lavori di restauro si è visto che la lastra marmorea era stata riutilizzata, e reca sul retro l’iscrizione funeraria di un mercante milanese

FRANCISCO DE BELI.O

MEDIOLANENSI MERCATORI

INTEGERRIMO QVI

VIXIT ANNOS L.

ANDREAS DE MARCHESIIS MEDIOLANE

В . M . P.

Procedendo nello spoglio delle iscrizioni conservate nelle chiese di Roma raccolte e trascritte dal Galletti e dal Forcella, si è scoperto che la lastra chiudeva una tomba terragna della Chiesa di S. Lorenzo in Damaso.

Nei secoli XVI e XVII, fra i terreni di proprietà del Capitolo di S. Lorenzo in Damaso figura anche una Vigna posta sulle colline di Monteverde. E appare molto probabile che i canonici di S. Lorenzo usassero anche le catacombe di  Monteverde come cava di materiale per le sepolture della loro chiesa.

La catacomba di Monteverde è senza ombra di dubbio il più antico cimitero della comunità ebraica di Roma, ed è possibile datarla in alcune parti tra la fine del I e gli inizi del II secolo d. C., infatti la proselita Beturia Paulina che aveva incontrato i Rabbi nel 90-96 d. C. circa, muore sedici anni dopo, nel 110 d. C. circa.

La catacomba avrà vita molto lunga perché il sarcofago con le stagioni e la Menorah viene datato al III-IV secolo d. C., e in questo cimitero lavorò anche un lapicida dalla grafia così caratteristica che la sua “mano” è riconoscibile anche nella catacomba ebraica di Villa Torlonia.